Francesca Fialdini ha un tono serio, quando parla del proprio lavoro. Raramente, si concede una risata, la leggerezza di una battuta. «È che certe tematiche che mi sono care sin da quando sono una bambina», racconta, cercando di spiegare come sia stato rivoluzionare Da noi… A ruota libera, di ritorno su RaiUno alle 17.20 di domenica. Quel che emerge, sentendola parlare, lucida e precisa, è la volontà di guardare al passato per capire il futuro, di ritrovare quel che la pandemia si è portata via. «Abbiamo cercato di recuperare la formula originale del programma. Il Covid-19, lo scorso anno, ha bloccato l’Italia, costringendoci a rinunciare ad un certo tipo di racconto. Quest’anno, vorremmo riscoprire lo spirito iniziale che ha mosso il format: la sua vena di happening show. Vorremmo invitare personaggi noti, che siano disposti a mettersi in gioco e ad ascoltare le storie di persone comuni. Vorremmo poter raccontare il Paese attraverso gli occhi di chi famoso non è». Per capirlo, però. Per leggerlo e decifrarlo. Non per sposare la retorica che, spesso, accompagna certi –ismi.
Da dove nasce questa sua vena battagliera?
«Mia madre, che in Italia credo sia stata la prima donna ad essere nominata segretario dei Ds, mi ha insegnato a sentirmi responsabile per gli altri. Sono cresciuta all’ombra di una donna molto impegnata. Ricordo i tomi sulla nostra libreria, i volumi sull’importanza dell’armonizzazione salariale, i dibattiti cui ho assistito quando le riunioni si sono tenute a casa nostra».
Come eliminare dal racconto televisivo il rischio retorico?
«Cercando di passare dalle parole ai fatti. L’emancipazione femminile è sulla bocca di tutti, ormai, ma perché si fatichi tanto a darle un’applicazione pratica non lo si dice. Quel che vogliamo chiederci è se la società che stiamo costruendo stia davvero guardando al futuro. Perché i tassi di disoccupazione ancora ci dicono che sono le donne, relegate al ruolo di caregiver, a pagare lo scotto più alto? Perché ancora esiste un automatismo in nome del quale, a livello collettivo, si pensa che una donna debba dedicarsi prima alla famiglia e poi a se stessa?».
Che risposte si è data?
«Le storie che abbiamo raccolto per A ruota libera restituiscono il senso di smarrimento delle ragazze d’oggi. Al Nord, la situazione è diversa, migliore. Chi abita nelle metropoli e vive in contesti socioeconomici dignitosi ha la possibilità di guardare all’Europa. Al Centro-Sud, però, le donne sono molto penalizzate. C’è una tendenza, al vaglio degli esperti, che racconta di ragazze costrette a rinunciare alla propria affermazione professionale, ragazze che oggi sperano solo di sistemarsi presto: di sposarsi, fare figli».
Eppure, spesso, fingiamo di non vedere quel che sta da noi per guardare altrove, più lontano.
«Un’altra cosa di cui dibatteremo. Uno spazio dello show sarà occupato dal racconto delle donne di Kabul. Vorrei cercare di capire meglio cosa ci muova a livello emotivo in vicende come questa. Credo che ognuna di noi, in Italia, si accorga di come quei diritti che alle donne di Kabul sono negati a noi, sulla carta, siano concessi. In alcune zone del Paese, però, mancano le condizioni strutturali per poterli esercitare».
E la televisione ha ancora un potere educativo, in questo senso?
«Assolutamente, sì. Il programma di Chiara Francini su Nove, quello dedicato alle drag queen (Drag Race Italia, ndr), ne è un esempio. Servirà a farci capire quanto sia bello sentirsi liberi. La tv sta tornando ad infiammare gli animi, ed è bene che si arrivi a raccontare la realtà in maniera ludica. Il costume ha sempre anticipato le grandi rivoluzioni di un Paese».
Mai pensato di portare questa sua sensibilità altrove?
«Certo. Noi siamo dei liberi professionisti, non dei dipendenti Rai. Mi piace, poi, l’idea di potermi confrontare con diversi strumenti di comunicazione. C’è l’interesse, insomma, ma l’occasione non è mai arrivata (ride, ndr). Che abbia cercato di ampliare la mia attività è innegabile. Non puoi non abitare le nuove tecnologie se vuoi arrivare ai giovani, e io questo vorrei fare».
La domenica pomeriggio è la giusta collocazione?
«La domenica è un momento particolare, in cui la famiglia italiana, intesa come metafora, è riunita davanti al televisore. Mi rendo conto che, con A ruota libera, spesso raccontiamo storie forti, crude. Ma sono storie urgenti, pervase poi da un certo ottimismo. Cerchiamo sempre di focalizzare l’attenzione sull’atto di coraggio che è stato fatto per superare gli ostacoli, così che ci si possa motivare gli uni con gli altri».
L’opposto di quello che viene fatto su altri canali, insomma. Si può davvero parlare di rivalità con la domenica di Mediaset?
«Direi di no. So che quest’anno cambia il mio competitor. Mediaset ha deciso di schierare un’eccezionale Silvia Toffanin, e sono contenta e onorata. Un po’ temevo potessero fare questa scelta, ma non posso sentirmi in competizione con quel tipo di racconto, perché io scelgo la realtà, la realtà cruda».
Di cosa parlerà, dunque, la nuova edizione di Da noi… A ruota libera?
«Della questione femminile, di amore, realizzazione professionale, trasformazione di genere, di gesti di solidarietà capaci di cambiare intere comunità. Racconteremo gli eroi del quotidiano, anche le madri, perché la maternità oggi è un grande atto di coraggio».
E spazio sarà dato anche alle breaking news.
«Sì, ci siamo accorti con la tragedia del Mottarone che non possiamo prescindere da un’informazione di questo tipo. Quando succederanno cose coma quella che abbiamo vissuto, saremo pronti. Lo dobbiamo al pubblico».
Su RaiTre, poi, tornerà con Fame d’amore, programma dedicato ai disturbi alimentari. Seguirà altro?
«Con Fame d’amore, continueremo il nostro racconto a partire da storie molto forti. Quest’anno, però, coinvolgeremo anche le famiglie, sentiremo la voce dei genitori. Poi, stiamo lavorando ad un progetto di prima serata che, come l’anno scorso, possa essere realizzato in occasione della Giornata sui disturbi alimentari: una sorta di talk».
Donne, attualità, cronaca, identità di genere e disturbi alimentari. Cosa le manca ancora?
«Una cosa ci sarebbe. Con gli autori di Fame d’amore, stiamo pensando ad un format che possa raccontare le psicopatologie dei ragazzi di oggi. Finalmente, abbiamo sdoganato l’importanza della salute mentale, la terapia. Io per prima vado in terapia, e meno male che ci vado perché mi aiuta a decomprimere, a scaricare le tensioni. La chiave credo possa essere la docuserie».