Solisti, Orchestra e Coro in grande spolvero nel giorno dell’ufficializzazione dell’addio del sovrintendente Pace
Che sia eseguito prima di una partita internazionale o dopo la conquista di una medaglia d’oro, l’Inno di Mameli non lascia mai indifferenti, neanche a teatro dove, comme d’habitude, lo si ascolta in apertura di stagione. Ma ieri l’allegro marziale del canto di Michele Novaro è andato oltre la solennità della serata di gala, ha significato qualcosa di più suscitando un’emozione profonda, derivante dalla consapevolezza di essere il segnale d’inizio di una ripartenza fortemente voluta da tutti ma niente affatto scontata, e della musica che rinasce in un teatro finalmente accessibile dopo un anno e più di forzata chiusura.
Grande festa, dunque, nella sala tirata a lucido per riaccogliere il suo pubblico. Una festa che arriva nel giorno dell’ufficializzazione dell’addio di Stefano Pace al Verdi: il sovrintendente è stato nominato direttore generale e artistico dell’Opéra Royal de Wallonie a Liegi.
Per ricominciare alla grande si è puntato tutto sull’appeal nazional-popolare di un titolo come “La traviata” di Verdi, da sempre una delle opere più rappresentate nel mondo. L’allestimento, scene e costumi curati dalla Fondazione Verdi sono gli stessi della tournée che ha riscosso tanto successo in Giappone due anni fa, funzionali ed eleganti nel solco della tradizione ma mai polverosi, mentre la regia di Mariano Bauduin non trova grandi spazi di manovra dovendo tener conto del distanziamento anti-covid. Per cui il Coro – preparato da Francesca Tosi e da sempre punto di forza del Teatro - diventa una sorta di tableau vivant collocato in fondo al palcoscenico, mentre gli interpreti si guardano cercano avvicinano senza incontrarsi mai, eccezion fatta per la coppia di danzatori Guillermo Alan Berzins e Marijana Tanaskovic, matador e zingarella di ascendenza tanguera chiamati a ravvivare la festa del terzo atto in casa di Flora.
Sul versante musicale, cimentarsi nella concertazione di una partitura stra-famosa-suonata-incisa-diretta dai più grandi nomi non è cosa da poco e il rischio di cadere nella banalità è sempre in agguato. Consapevole che gran parte del pathos che crea l’atmosfera di quest’opera deriva dall’uso splendidamente espressivo degli archi, il giovane direttore Michelangelo Mazza punta su questo e opta per un’azzeccata lettura cameristica, impostata sulla trasparenza strumentale, funzionale ad avvolgere e sostenere il canto nell’attenzione costante al rapporto buca-palcoscenico. Sul podio respira con i cantanti, scansa ogni pesantezza ritmica, sfuma gli strumenti per far risaltare le voci e, nei momenti ov’è richiesta maggiore intensità sonora, moderando l’apporto di legni e ottoni riesce a ottenere un suono calibrato e mai ridondante da un’orchestra che lo segue compatta e in gran spolvero.
In scena, il soprano spagnolo Ruth Iniesta delinea una convincente Violetta, dalla sicurezza con cui affronta le agilità vocali del primo atto alla proiezione del suono e gestione dei fiati necessari al canto a mezza voce, che impreziosisce di sfumature espressive tutto il percorso successivo della protagonista, fino al commovente congedo del quarto atto. Accanto a lei il tenore Marco Ciaponi regala ad Alfredo impeti vocali ben sostenuti di “bollenti spiriti e giovanile ardore” che successive prestazioni indurranno ad affinare mentre il baritono Angelo Veccia plasma il canto di Germont con l’incisività della parola e un fraseggio eloquente. Alto il livello di tutti comprimari, dalla graziosa Flora di Rinako Hara alla partecipe Annina di Elisa Verzier, da Motoharu Takei vivace Gastone ad Andrea Binetti elegante Barone Douphol a Hektor Leka dottor Grenvil di lusso, fino agli ottimi Giovanni Palumbo, Dax Velenich, Damiano Locatelli e Giuliano Pelizon. Grande successo e prolungati applausi per tutti gli interpreti. —
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