Nel ’73 ottenne la qualificazione, ma dovette scappare dal dittatore Baby Doc
TRIESTE Quanti sono gli allenatori triestini che hanno guidato una nazionale ai mondiali di calcio? Due e mezzo. Ferruccio Valcareggi nel 1970, i mondiali del mitico 4-3 con la Germania e della finale persa contro il Brasile di Pelè; e ancora quattro anni dopo, in quell’azzurro tenebra che fu il mondiale in Germania. Cesare Maldini in Francia nel 1998, con il bis esotico alla guida del Paraguay nel 2002. E poi c’è stato Ettore Trevisan, che ai mondiali ci andò per metà. Guidò la squadra di Haiti alla conquista della fase finale della coppa del mondo del 1974, però in Germania non mise mai piede e i mondiali dei grenadiers haitiani li vide solo in tv, da casa sua, a Trieste. La sua incredibile avventura nel piccolo paese caraibico durò appena cinque mesi e si concluse bruscamente. Dalla gloria all’incubo, dai festeggiamenti per la qualificazione all’arresto da parte della polizia del dittatore ‘Baby Doc’ Duvalier. Solo l’intervento dell’ambasciatore italiano permise di evitare che quella brutta avventura si trasformasse in qualcosa di peggio.
Rilasciato dalla polizia e capito che non era aria, Trevisan (nella foto assieme a Pelè) si imbarcò con la famiglia su un aereo e tornò trafelato e impaurito in Italia, arrivando a Ronchi con ancora addosso la divisa della federazione haitiana. Nell’intervista che rilasciò al giornalista de “Il Piccolo” che lo aspettava all’aeroporto, parlò di una vera e propria persecuzione ai suoi danni, sostenne di avere i telefoni sotto controllo e di aver avuto paura. Poi di quella vicenda non si parlò più. Trevisan cercò di dimenticarla in fretta, Haiti cancellò l’allenatore italiano dalla sua storia e affidò la nazionale a Tassy, il vice di Trevisan, che sedette in panchina pochi mesi dopo, quando ai mondiali Haiti fece prendere uno spavento all’Italia, andando anche in vantaggio prima di essere sconfitta per tre a uno. E il gol che fece perdere l’imbattibilità a Zoff lo segnò Emmanuel Sanon, un ragazzo scoperto e lanciato proprio da Trevisan.
A ripensarla oggi la vicenda di Trevisan ad Haiti è qualcosa di straordinario. Ormai siamo abituati ai giramondo del pallone, giocatori e allenatori che vanno dove li porta il bonifico, ma nei primi anni Settanta lasciare l’Italia per andare ad allenare nella piccola isola caraibica era davvero oltrepassare le colonne d’Ercole del calcio. Haiti dunque. Repubblica indipendente dal 1804 e nata, fatto unico nella storia, da una rivolta di schiavi. Quando Trevisan vi arriva, nel 1973, la popolazione sfiora i cinque milioni di abitanti, caffè e canna da zucchero sono le risorse principali ma la gente vive nella miseria. Ad arricchirsi c’è solo la cricca della famiglia Duvalier, al potere da vent’anni. Prima il vecchio François, chiamato Papa Doc, uno che per terrorizzare la popolazione andava in giro travestito da Baron Samedi – cappello a cilindro bianco, vestito e occhiali neri - la potente divinità vudù, il traghettatore dei morti. Scomparso lui, dal 1971 presidente è il figlio Jean-Claude, Baby Doc, che come molti dittatori sfrutta la popolarità del calcio per ottenere consenso. Vuole che Haiti vada ai mondiali del 1974 e cerca un allenatore navigato; a chi rivolgersi se non a uno dei paesi di più lunga tradizione nel football? Così, approfittando di un trattato di cooperazione economica tra Haiti e Italia, Baby Doc chiede aiuto alla federazione di calcio italiana. Caso vuole che tra i tecnici ci sia anche Guglielmo Trevisan, per tutti Memo, triestino. Ed è su quest’ultimo che cade la scelta: ha poco più di quarant’anni, una carriera senza acuti in serie C e D negli anni Cinquanta, ma con qualche successo all’estero come allenatore. In Grecia ha vinto anche una coppa e ha allenato in Francia, per cui un po’ di francese, che gli servirà ad Haiti, lo mastica. Così Trevisan vola dall’altra parte del mondo, lo stipendio pagato dal nostro ministero degli Esteri. Baby Doc gli mette a disposizione una villa immersa nella natura, un giardino pieno di noci di cocco e mango. Il triestino fa conoscenza con i giocatori, una squadra di discreti dilettanti in cui Trevisan riesce comunque a scorgere qualche buon talento, come il portiere Francillon, che di professione fa il contabile, il centrocampista Vorbe, l’unico bianco della squadra, e l'attaccante Sanon, velocissimo e con un destro potente. La squadra si allena la mattina presto e la sera dopo il tramonto, nelle altre ore il caldo è soffocante. Trevisan si sforza di dare ai suoi uomini una disciplina tattica sconosciuta, ma anche un certo comportamento fuori dal campo. "Non era facile - racconterà anni dopo in un'intervista - soprattutto quando si ci allenava alle sei del mattino e alcuni dei miei giocatori arrivavano al campo senza energie, dopo notti brave di prodezze sessuali". Dicembre 1973, si gioca il girone di qualificazione, che Baby Doc ha ottenuto di far giocare interamente in casa, nella capitale Port-au-Prince. I tifosi haitiani si riuniscono davanti agli alberghi delle altre nazionali, improvvisando concerti fino a notte fonda per disturbare il sonno degli avversari. Non mancano il lancio di oggetti e le minacce fisiche, mentre il lato “spirituale” è affidato agli stregoni più potenti dell’isola, che compiono riti vudù per avere le divinità dalla propria parte. E i risultati non mancano. Quattro vittorie su cinque incontri disputati: esordio con tris alle Antille Olandesi, 2-1 a Trinidad e Tobago, 1-0 all’Honduras, 2-1 al Guatemala e sconfitta finale ed ininfluente contro il Messico per 1-0. Ai mondiali ci sarà anche Haiti. Trevisan, euforico, pensa già di organizzare il ritiro della nazionale sul Carso triestino, chiama Moncini, presidente della Triestina, e propone una partita con Haiti al Grezar in maggio. Ma il fatto che a guidare i caraibici sia un italiano, un bianco, a Baby Doc non va bene. Ora che la missione è compiuta bisogna presentare in mondovisione il volto ufficiale di Haiti, ci vuole insomma un allenatore nero. Trevisan ci mette anche del suo quando, intervistato da Vittorio Zucconi per La Stampa, dice che il paese è povero, molta gente, compresi i calciatori, vive nelle baracche, non mangia abbastanza e pratica riti vudù. Il regime non prende bene l'articolo, Trevisan viene chiamato dalla Federcalcio che lo costringe a rassegnare le dimissioni. Ad Haiti viene trattato come un sovversivo, il suo telefono è messo sotto controllo, la sua casa perquisita. La polizia intimidisce l’allenatore e la sua famiglia, che intanto lo aveva raggiunto ad Haiti. Per due volte deve intervenire l’ambasciatore italiano. Il clima insomma non è dei migliori e Trevisan torna in Italia nel febbraio del 1974, chiudendo la sua incredibile avventura da Forrest Gump del pallone.
