La tela dalla forte drammaticità, identificata appena prima che andasse all'asta, sarà una pietra miliare nello studio Michelangelo Merisi. Altre opere attribuite all'artista dovranno essere riconsiderate.
Ogni stagione ha il suo Caravaggio. Questa è la più propizia, perché l'apparizione dell'Ecce homo a Madrid è stata accompagnata da un coro di consensi senza precedenti per un'opera apparsa dal nulla. In realtà, a ben vedere, pur nel clamoroso errore dell'attribuzione a Caravaggio dell'Ecce homo di Palazzo Bianco a Genova, Roberto Longhi, nel suo articolo del 1954, sulla rivista Paragone, indicava due strade parallele, per imboccarne una terza: quella giusta, pubblicando un'incredibile copia del dipinto apparso a Madrid, asciutta ma sostanzialmente identica; e una tutt'affatto diversa nella concezione pittorica, anche se con gli stessi elementi, erroneamente percorsa, in un ginepraio di copie, da Giovanni Papi, nell'illusione di aver trovato il «primo» Ecce homo di Caravaggio.
La versione da lui ritenuta originale, nella pittura edulcorata, è totalmente estranea alla poetica di Caravaggio, anche in una supposta fase giovanile con l'ipotizzata, ma improbabile, conoscenza di Antonello e Giovanni Bellini. Il Cristo, diversamente da come scrive il Papi, non è «segnato da un'espressione di sofferenza dagli echi nordici» ma è levigato e risoluto, non umiliato e mortificato. Papi insiste su confronti improbabili con il Fanciullo con canestro di frutta.
Ma la sua proposta è, come nel caso dell'Ecce homo di Palazzo Bianco, spazzata via dall'implacabile e drammatico Ecce homo di Madrid. Non capitava da tempo che un dipinto mettesse d'accordo gli studiosi imponendosi con una evidenza inequivocabile, e questo ci fa riflettere a ciò che resta, allo stato degli studi, a partire dalla mostra di Caravaggio curata da Roberto Longhi in Palazzo Reale di Milano nel 1951. In quella occasione, con i grandi capolavori provenienti senza alcuna difficoltà da Roma, da Napoli, dalla Sicilia, vi erano anche opere spurie che il tempo si è incaricato di espungere come oggi tocca all'Ecce homo di Genova.
Mi riferisco al Narciso, dirottato già negli anni Settanta verso lo Spadarino, pittore assai notevole, come appare nello stesso dipinto, ma infinitamente meno popolare di Caravaggio. Emerge invece come la più importante apparizione, a mostra inaugurata, la Giuditta e Oloferne rinvenuta in casa Coppi da Pico Cellini, proveniente dalla collezione genovese di Ottavio Costa. Una delle scoperte capitali, «il primo quadro veramente carico di movimento trascinante», secondo Mia Cinotti, e così vivo e vibrante da vanificare la recente versione rinvenuta in Francia, attribuita da Nicola Spinosa e pompata da Keith Christiansen, anch'essa più caricaturale che naturale nel volto forzatamente rugoso dell'ancella.
Possiamo dunque dire che, dalla grande mostra di Longhi, ogni studioso sia lentamente venuto aggiornando e integrando il catalogo di Caravaggio con molte proposte caduche e alcune (rare) convincenti. Cadono a una a una, come birilli, le avventurose proposte di Federico Zeri di un Caravaggio pittore seriale di nature morte, volta a volta dalla bottega del Cavalier D'Arpino sospinte verso anonimi vari, o Carlo Saraceni o il Maestro di Hartford.
Segue il Postpasto della National Gallery di Washington fortemente sostenuto da John Spike. Nulla di fatto anche per le diverse versioni del Ragazzo che monda un frutto, una dopo l'altra cadute. Stessa sorte per il Giovane con vaso di rose, in tutte le versioni conosciute. Sfortunate anche le attribuzioni di Denis Mahon: una seconda versione de I bari di Fort Worth, la Vocazione dei Santi Pietro e Andrea di Hampton Court e il San Pietro con il gallo di una collezione di Orvieto.
Sfortunate anche le proposte di un interprete molto acuto di Caravaggio come Ferdinando Bologna: la sua Salomè dalla collezione Arditi di Castelvetere non convince, e lo stesso si può dire anche del San Francesco in estasi della collezione Johnson. Al contrario di una delle opere più straordinarie, entrata senza esitazioni nel catalogo di Caravaggio, dopo una travagliata serie di colpi di scena, fino all'approdo definitivo: si tratta della Negazione di Pietro, proveniente dalla stessa collezione Arditi di Castelvetere dove Longhi la classificò come opera di Battistello Caracciolo, in perfetta malafede.
Uscita l'opera dalla casa, sulla metà degli anni Sessanta, diventò, approdata al sicuro in Svizzera, un'opera tarda di Caravaggio e, come tale, acquistata dal Metropolitan Museum di New York. Come nel caso dell'Ecce Homo di Madrid, anche la Negazione, non appena di dominio pubblico, si è imposta tra i capolavori ritrovati di Caravaggio. Il grande inganno, dopo che il dipinto approdava in Svizzera, si conclude con l'acquisto abusivo del Metropolitan di New York senza che l'Italia abbia mai rivendicato, nonostante denunce e prove, la titolarità del dipinto.
Anche alcune attribuzioni di Mina Gregori, illustre studiosa di Caravaggio, non tengono sul tempo lungo: mi riferisco in particolare al Cavadenti di Palazzo Pitti e all'Incoronazione di spine, già nella collezione Cecconi di Firenze, dove la vide il Longhi, giudicandola una copia, e ora nella collezione di Palazzo Alberti a Prato, promossa dalla Gregori. Più complessa la questione delle Maddalene in estasi, di cui almeno tre versioni (tra cui quella pubblicata da Mina Gregori) si contendono l'autografia, così come accade anche con il San Francesco in meditazione conosciuto in numerose versioni, di cui le più significative nella Chiesa dei Cappuccini a Roma, a Carpineto Romano e in collezione Bigetti.
Bigetti sembra essere un habitué del Caravaggio, talché è molto alta la considerazione della critica anche su una Cattura di Cristo, conosciuta in diverse versioni delle quali è accreditata come autografa quella nel museo di Dublino, scoperta da Sergio Benedetti, tra i punti saldi della integrazione del catalogo di Caravaggio dopo gli studi di Longhi. Dell'imponente lavoro di Maurizio Marini rimane poco di universalmente accettato, se si esclude la Negazione di Pietro, sopra ricordata, da lui pubblicata nei primi anni Settanta, correggendo l'errore (non si sa quanto voluto) di Roberto Longhi.
Al numero ristretto delle opere universalmente accettate, si aggiunge una delle invenzioni estreme, forse l'ultima di Caravaggio, il Martirio di Sant'Orsola delle collezioni Intesa-Sanpaolo, finalmente approdato in Palazzo Zevallos Stigliano a Napoli, importante agnizione di Ferdinando Bologna, inizialmente respinta da Roberto Longhi e poi riconfermata da Mina Gregori. Non sono, dunque, tante le opere che, in settant'anni dalla riscoperta del pittore, ne hanno arricchito il corpus. Per questo, la scoperta di Madrid, nella sua immediatezza, rappresenta un momento importante della fortuna caravaggesca.