Questo articolo, in versione ridotta, è pubblicato sul numero 16 di Vanity Fair in edicola fino al 20 aprile 2021
La voce non ha accenti. O forse li ha un po’ tutti, così ben mischiati da fluire in una sorta di affascinante esperanto di cadenze. Suona come un flauto, Mehdi Meskar, quando si racconta. Così musicale che quando ammette di essere stonatissimo, viene istintivo non credergli. Ma è l’unico momento in cui la sua sincerità trasparente possa essere messa in discussione.
Nato a Reggio Calabria, da bambino si trasferisce a Montebelluna, in provincia di Treviso. E poi, adolescente, va Parigi. Una famiglia poco statica, la sua.
«Mio padre in Marocco era pittore e professore di belle arti. È sempre stato molto affascinato dalla cultura italiana. Quando aveva 27 anni, lui e mia madre sono arrivati in Calabria, e poi poco dopo la mia nascita si sono trasferiti nel trevigiano per lavoro.Quando avevo 14 anni siamo partiti tutti assieme per Parigi. Solo ora mi rendo conto di quanto siano stati coraggiosi i miei genitori nel cambiare radicalmente vita per tre volte. Non so nemmeno dove l’abbiano trovato, quel coraggio».
Quando ha capito di voler fare l’attore?
«Da bambino, in una vacanza in Francia, avevo visto un enorme cartellone con un ragazzo di origini magrebine: in quel momento per la prima volta ho capito che anche uno come me aveva la possibilità di stare sul grande schermo e di fare questo mestiere. In Italia, all’epoca, non c’erano molti personaggi di colore. Per mesi e mesi a cena, a Treviso, parlavo ai miei di una scuola di recitazione che avevo visto esistere e a Parigi».
Non vi sarete trasferiti per questa ragione?
«No, certo. Ma il mio desiderio è stato un punto molto importante nella loro decisione di spostarci».
Come ha vissuto, in Veneto, da magrebino di seconda generazione?
«Ci sono stati momenti in cui la differenza tra me e gli altri me l’hanno fatta sentire. Anche se io mi sentivo italiano al 100%. Momenti difficili, che mi hanno segnato, ma che mi hanno dato anche la forza di dimostrare che questa differenza è una forza».
Ricorda un episodio?
«Molti. Durante un gioco con un amico, a ricreazione, è scoppiata una piccola lite. “Tornatene al tuo paese, marocchino!”, mi ha detto. Questa cosa mi ha spiazzato, non sapevo cosa pensare. Senti che è un’ingiustizia. Il dolore c’è, ma te lo tieni dentro…».
Ne ha parlato coi suoi?
«No, sono sempre stato molto pudico riguardo i miei sentimenti. Soprattutto con loro».
Crede sia una questione culturale?
«Può essere. O forse è una cosa mia: ma non perché abbia paura di aprirmi, quanto perché non mi piace disturbare. Quando sono triste, tengo tutto per me».
La Francia si dimostra più capace e pronta nell’accoglienza dell’immigrazione?
«Sicuramente sì: lì c’è un passato coloniale diverso, c’è una quarta generazione di immigrati, ormai. L’Italia è solo alla seconda».
Crede sia solo una questione di tempo?
«Sostanzialmente sì. Sono fiducioso: molti attori di origini straniere mi hanno scritto, dopo Skam, per dirmi che adesso ci credono davvero, che sentono che c’è una possibilità anche per loro…».
Dei tanti ruoli che ha interpretato, quanti erano ruoli di ragazzi magrebini, e quanti di ragazzi… e basta?
«Siamo a un 50 e 50. Succede molto di più in Francia, che le origini siano ininfluenti».
Da attore, l’approccio a queste due tipologie di personaggi è uguale?
«Certo, non ci sono differenze».
Ha ambizioni da un attore internazionale. Ha girato ovunque, dall’Austria al Canada alla Germania…
«Da quando ho 18 anni ho iniziato a contattare agenti ovunque nel mondo, è vero».
Vuole arrivare a Hollywood?
«Ci ho pensato ad andare in America, sì. Ma amo molto i film d’autore, e in questo senso siamo molto fortunati qui in Europa. Ecco, forse più che a Hollywood vorrei andare a New York».
Il successo popolare non l’affascina?
«Sempre meno. Forse, all’inizio, avevo questo desiderio di essere famoso; ricordo quanto mi colpissero programmi come il Grande Fratello, e la possibilità di diventare personaggi mediatici così, senza fatica. Forse l’idea che quasi fosse più importante essere famosi piuttosto che bravi, in qualche misura, mi ha condizionato».
Perché fa l’attore, oggi?
«Con i film puoi sognare, immedesimarsi in personaggi che altrimenti non potresti mai essere. Da bambino adoravo i supereroi, come Spiderman. Crescendo, la molla è diventata la voglia incontenibile di creare: mio padre è stato un grandissimo esempio in questo senso».
Che superpotere vorrebbe avere, oggi?
«Se dicessi che vorrei poter sconfiggere il covid? Anche il teletrasporto non sarebbe male»,
In Italia la conosciamo soprattutto per Skam. In Francia per cosa è noto?
«È piaciuta molto una serie che si intitola Les Engagés: è la prima serie francese prodotta da un ente pubblico a tematica LGBTQ. Interpreto Isham, un giovane ragazzo omosessuale, che scopre il proprio impegno sociale e politico».
Per lei è stato difficile interpretare il ruolo di un omosessuale musulmano?
«So che alcuni attori presi in considerazione per il ruolo si sono rifiutati di fare i provini. Ma più per mentalità, che per le loro origini. Io ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente dalla mentalità aperta che ha sempre visto l’omosessualità come una normalità. Comunque, del personaggio non si dice mai esplicitamente che sia musulmano. Certo, però, non si può negare che sia un tabù ancora oggi essere un musulmano – così come cristiano praticante – omosessuale».
È credente, praticante?
«Credo, più che altro, in un’idea di unione delle religioni».
Su instagram c’è una suo post con la foto di un suo occhio e la caption Boys Do Cry. Piange spesso?
«È strano: quando sono ansioso, mi capita di sedermi e di desiderare di piangere. Ma a volte proprio non riesco a farlo. Mi piacerebbe poter piangere di più».
Quando ha pianto l’ultima volta?
«Sa che non ricordo? Una lacrimuccia per un bel film ogni tanto esce. Mi toccano molto le storie di ingiustizie che finiscono con una sorta di rivincita».
È facile individuare le ingiustizie quando ne si è vittime. Lei si è mai scoperto, invece, autore di pregiudizi?
«È successo, sì. Eravamo con amici a lavorare a un cortometraggio, avevamo lasciato incustodita la nostra attrezzatura. Passa un gruppo di stranieri, ci allarmiamo tutti pensando potessero rubarcela. La società ci ha messo in testa – anche a me, inconsapevolmente – che uno straniero sia più disonesto. Cerco di imparare dai miei sbagli».
Non vorrebbe lavorare un po’ di più in Italia?
«Adorerei».
Se le proponessero, oggi, un Grande Fratello Vip?
«Mai».
Ma per tanti saldi?
«Mai».
Su, nemmeno per 10 milioni?
«No, aspetti, forse per 10 milioni sì. Ma non un euro di meno».
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