«Gli auguri sono come i complimenti, li ricevi ma non ci credi». Lo scrive Luca Barbarossa in Non perderti niente, il libro pubblicato Mondadori che l’artista ha voluto regalarsi per i sessant’anni che compie oggi, 15 aprile, e quasi mi vergogno a fargli gli auguri, limitandomi a chiedergli se sia pronto psicologicamente ad affrontarli. «No» risponde lui. «Sessant’anni sono impossibili. Ci siamo distratti, è successo qualcosa, non mi hanno detto tutto» scherza Luca spiegando che, anche per via dell’osservanza dei decreti, la giornata la passerà in maniera tranquilla, concedendosi un brindisi con gli amici di Radio2 Social Club, il programma che conduce tutte le mattine su Radio2, e una cena con la moglie Ingrid e i tre figli Margot, Flavio e Valerio: «Di più non si può fare, ma riunirci tutti insieme è già una grande vittoria» aggiunge poco dopo, contento di regalare ai fan, ma soprattutto a sé stesso, un libro per esorcizzare questa cifra tonda che fa paura e per ripercorrere le storie, le avventure e gli incontri che hanno caratterizzato la sua vita.
Una vita che parte da Roma e lo porta a girare il mondo, a sfondare nella musica con un primo singolo di successo dedicato alla sua città, Roma Spogliata, a partecipare nove volte al Festival di Sanremo, a incassare il plauso di Franca Rame e di Dario Fo per una canzone, L’amore rubato, che rimane uno dei pezzi più politici che siano mai stati presentati all’Ariston, e persino a godersi una birra nel camerino di Bruce Springsteen all’Auditorium della Conciliazione dopo una mezza promessa strappata sempre a Sanremo.
Quando decide di scrivere un libro sulla sua vita?
«La scorsa estate, appena terminata la stagione di Radio2 Social Club. Ero a pranzo con un ottimo vino bianco – a ripensarci, forse la colpa è del vino – con Francesco Barbaro, il mio manager, e stavamo pensando a cosa fare per i sessant’anni. “Possibilmente niente” gli ho risposto io. Dopotutto, ho sempre cercato di non lavorare nella vita, non vedevo perché cominciare in quel momento. Poi ho pensato che ho sempre scritto canzoni, ma mai un libro: l’idea di non seguire una costruzione metrica e di condividere le avventure che mi sono capitate ha iniziato a intrigarmi. Volevo fare questo viaggio».
Infatti nel libro parla soprattutto dei viaggi che ha fatto.
«Per fortuna sono stati tanti, una benedizione se penso al periodo che stiamo vivendo. Il libro vuole dire ai miei figli e alle nuove generazioni di andare, di rischiare, di inseguire le proprie passioni, di respirare umanità».
Eppure, prima di girare il mondo, il libro e la sua vita partono da Roma, più precisamente da Piazza Navona.
«Avevo diciassette anni e un grande desiderio di imparare a cantare davanti agli altri: la strada è stata il mio talent, ho cominciato a farlo a Piazza Navona con Mario cantando il folk americano. La gente si divertiva, si fermava e si godeva lo spettacolo: questo ci ha spronato ad andare avanti fino a quando, nell’estate del ’69, abbiamo deciso di andare in giro per l’Europa con le chitarre e la tenda, una spedizione entusiasmante in cui facevamo i soldi per mettere la benzina e ripartire».
A scuola, invece, era un peperino: mi racconta di quando prese il 7 in condotta che rischiò di farle perdere l’anno?
«Quel 7 in condotta mi ha portato a Londra, segno che non tutti gli errori vengono per nuocere. A scuola avevo preso una brutta piega, erano anni di grandi conflitti politici. Un giorno un insegnante ci negò il diritto all’assemblea e io, in un moto di rabbia, spaccai la sedia sulla cattedra bruciandomi l’estate con dieci materie da dare a settembre. I miei, impietositi, mi regalarono un biglietto per Londra: da lì mi si è aperto un mondo pazzesco che non volevo più mollare. Lavoravo, mi mantenevo in una cameretta in subaffitto e con i soldi della mance comprai la mia prima chitarra professionale».
Poi torna e fa un’altra battaglia non da poco: evitare il servizio militare.
«Ho sempre avuto un problema di claustrofobia: non mi poi chiudere un anno in caserma senza aver commesso nessun reato. Dal ritrovarmi a cantate per le strade di Lisbona a marciare con la divisa ad Ascoli Piceno era impensabile. Altri la prendevano bene, tipo il mio amico Neri Marcorè, che si è trovato benissimo, ma, se fossi rimasto, sicuro mi sarei ammazzato. Non era il mio, mi sentivo come animale in gabbia: per fortuna, non tanto per me quanto per l’esercito, riuscii a scamparla. Ripresi, così, la mia vita nomade: se avessi fatto il militare non avrei vinto Castrocaro, non sarei partito in tournée con Cocciante».
Però una volta è stato arrestato.
«È successo durante una partita della Roma: avevano venduto più biglietti della capienza dell’Olimpico e io scavalcai nel momento sbagliato, presi tante di quelle mazzate che ancora oggi ne porto i segni. Fortuna volle che gli incidenti furono talmente tanti che la svangai. La musica mi salvò anche in quell’occasione: il poliziotto che mi aveva in custodia scoprì dalle mie unghie che ero un chitarrista come lui e riuscì a convincere il suo superiore a lasciarmi andare».
A un certo punto del libro scrive «indietro non sarei tornato». Cosa c’era davanti a sé?
«La passione, che era la mia vita. Il primo anno di carriera fu una gran botta di fortuna, con un disco al primo posto in classifica, ma il mio impresario mi disse che stavo viaggiando su una Ferrari, ma che non sarebbe andata sempre così, e aveva ragione. Non fui fortunatissimo: avevo una casa discografica allo sbando, per pagare l’affitto suonavo nei piano-bar. Le cose sono cambiate quando ho conosciuto Antonio Coggio e Roberto Davini: da lì ebbi più continuità, cominciai a scrivere molto e a produrre delle belle canzoni come Come dentro a un film e Via Margutta».
Via Margutta che scrisse di ritorno da New York.
«Altri avrebbero scritto di New York, io della mia infanzia. Dopotutto sono nato lì, quella canzone aveva a che fare con le mie radici più profonde».
Si ricorda di quando ricevette il telegramma di Dario Fo e Franca Rame a Sanremo?
«Ho scritto L’amore rubato proprio ispirandomi al monologo di Franca Rame sullo stupro, un crimine terrificante per cui nessuno ha mai pagato, realizzato da fascisti che la punirono per la sua libertà e le sue idee. Un doppio stupro, uno fisico e l’altro morale. Il suo monologo trasformò quella ferita in arte perché, in fondo, l’arte significa creare coscienza nelle persone. In quell’occasione provai vergogna di appartenere al genere maschile».
A quei tempi gli uomini non si esprimevano spesso sul tema: ha rotto uno schema, specie a Sanremo.
«In quegli anni al Festival si presentavano canzoni più spensierate, io mi sentivo un po’ un guastafeste, un guasta-festival. La vita, però, ti smentisce sempre: quella canzone fu prima in classifica sia tra gli album che tra i singoli, mentre a Sanremo arrivò terza quando pensavo che arrivasse ultima».
Parliamo di quando Sanremo lo vinse nel 1992, nell’edizione in cui Mia Martini era data per favorita con Gli uomini non cambiano.
«L’ho definita la nostra Billie Holiday, una voce graffiante, moderna, straordinaria. Le persone si rendono conto più oggi della sua grandezza che di ieri. Trovavo insopportabile il fatto che venisse fatta fuori dalle manifestazioni per la nomea di iettatrice, ricordo ancora certe conversazioni degli addetti ai lavori, quella folle caccia alle streghe».
Ne ha mai parlato con lei?
«Non ci conoscevamo bene. A quel Sanremo ci eravamo incontrati in conferenza e dietro le quinte: lei era la grande favorita, un’artista enorme rispetto a me. La vittoria, però, non avrebbe cambiato mai l’idea che avevamo di lei: per me sarebbe dovuta andare come superospite e non come artista in gara».
Sempre a Sanremo incrocia un artista con la «a» maiuscola: Bruce Springsteen.
«Qualcuno scrisse che invitarlo a Sanremo era uno sbaglio, ma io non la pensavo così. Scrissi un articolo sul Corriere rimarcando quanto Sanremo fosse un contenitore che doveva essere riempito bene: avevamo la grande opportunità di avere Springsteen e non potevamo perderla. Non volle parlare con nessuno, né con la stampa né con Baudo, che lo presentò dalla platea. Prima dell’esibizione, però, qualcuno gli aveva raccontato del mio articolo e volle incontrarmi nel suo camerino. Mi parlò della sua passione per il folk americano e, nel discorso, gli dissi che Ragazzo con la chitarra era dedicata a Woody Guthrie: fu come se gli avessi detto che eravamo parenti e mi invitò al concerto che avrebbe tenuto a Roma due mesi dopo».
E ci andò?
«Non credevo che si ricordasse, ma andò così. Andai al concerto, ripresi la vespetta per tornare a casa, ma poi mi fermarono perché il Boss voleva vedermi. Dietro le quinte ci prendemmo una birra nel suo camerino: ricordo la potenza di quel concerto, come batteva sulle corde e tirava fuori le basse».
Torniamo a lei: si è sempre definito ansioso, oggi, a sessant’anni, come va?
«Ci ho combattuto tutta la vita: l’ansia non passa mai del tutto, ogni tanto si ripresenta in modo subdolo proprio quando pensavi di averla superata. Non sono mai stato disposto, però, a rinunciare a niente per l’ansia: le paure vanno affrontate, ogni volta che le prendi di petto hai solo da guadagnare».
Lei come l’ha combattuta?
«Uno psicologo mi ha insegnato a guardarmi da fuori, e lì ho imparato l’arma dell’ironia: uscivo dai miei labirinti mentali dicendomi che stavo andando a suonare per della gente che mi voleva bene, e non per un plotone d’esecuzione come pensavo le prime volte che salivo sul palco. Quando capisci che quelle persone sono lì per amore, ritrovi qualcosa in te stesso, un’energia tutta particolare».
L’amore per lei è una costante, dopotutto.
«Si fa tutto per amore. All’amore per mia moglie e i miei figli ho dedicato il libro. È grazie all’amore che ho smesso di scappare da tutto, dalla scuola, dal servizio militare: lì ho capito che il viaggio più bello non era andare via, ma cercare una profondità nei rapporti. Lo canto in Passami er sale».
Ai suoi figli tiene molto: non li avrà mai affidati alle cure di una tata come quella che si dimenticò di lei al parco all’EUR.
«Poi dice che uno c’ha le ansie. Ero figlio unico di una mamma separata che lavorava tanto: per fortuna è andata bene perché conoscevo il mio indirizzo a memoria e la signora che mi raccattò mi riaccompagnò. Di certo quella tata non mi ha più dimenticato: è stata un’esperienza traumatica non solo per me, ma anche per lei».