Macché ET! I marziani sono piccoli batteri. La testimonianza dei titolari dell'azienda toscana che nel 2030 collaborerà alla prossima missione su Marte
Il sogno di partecipare all’avventura dello sbarco di una missione alla conquista di Marte, alla Kayser – l’azienda aerospaziale livornese fondata da Valfredo Zolesi – l’hanno sempre avuto. Ce la faremo verso il 2030, dicevano dal quartier generale della Nasa. Troppo ottimisti: è più probabile il decennio successivo. «Diciamo attorno al 2045, forse un po’ dopo», precisa Zolesi junior, che di nome fa David Stefano e lavora con la sorella Sara Nancy nell’azienda di famiglia.
Adesso l’idea di andare su Marte è tornata nel radar dell’attenzione collettiva: la missione Perseverance con il robottino ha sventagliato immagini del “pianeta rosso” via social, basti dire che su Instagram ha oltre 64 milioni di follower, il triplo di Chiara Ferragni.
E se è vero che la Kayser non è in questo round della missione, il sogno è solo rimandato. A quanto è dato sapere, l’azienda high tech labronica sta negoziando la partecipazione per realizzare una parte dell’elettronica di bordo della missione Msr-Ero: sigle che stanno per “Mars sample return” e “Earth return orbiter”.
Di cosa si tratta?
Adesso l’ “occhio” di Perseverance è il nostro occhio lassù su Marte. Ma poi bisognerà pure andare a riprendersi quei materiali da analizzare. «Nel 2026 – dice David Zolesi – verrà lanciata una seconda missione: il robot di recupero “ammarterà”, prenderà i contenitori lasciati da Perseverance e li preparerà al lancio nell’orbita marziana. Ma a quel punto si porrà un altro problema: come farla uscire dall’orbita attorno a Marte e riportarla verso la Terra. Ci penserà la terza missione con il lancio dell’ “Earth return orbiter” che catturerà la capsula e rientrerà sulla Terra».
Siamo con tutti e due i piedi nel recinto della scienze e della tecnologia di altissimo livello. Ma anche dentro la dimensione del sogno. Beninteso, i “marziani” e gli Ufo occhio a immaginarseli come fighissimi umanoidi verdazzurri di stirpe “na’vi” come nel film “Avatar” o pacioccosi “E.T.” in dolce stil Spielberg che biascicano mogi «telefono, casa»: semmai saranno batteri o protozoi, organismi monocellulari tipo il paramecio sul quale insisteva la prof al liceo.
L’ha raccontato proprio in casa Zolesi – nella sede di Kayser fra i boschi livornesi della provinciale per il Gabbro – Rocco Mancinelli, astrobiologo, che le tracce di vita aliena le scova negli angolini bui delle galassie.
Ma il sogno di bambino resta il sogno di sempre e talvolta non c’è niente come i sogni capace di guidare l’agire concreto: fatevelo dire da Valfredo Zolesi, che nel luglio ’69 il “piccolo passo” dell’astronauta Armstrong sulla Luna se lo sentì rimbombare nel cuore di studente al secondo anno di ingegneria elettronica, figlio di un nostromo dell’Argentario. Risultato: era già in cattedra al Nautico e aveva due figli piccoli, quando usando ferie e aspettative volò due volte negli Usa per rimettersi fra i banchi a studiare e, dopo gavetta e fatica, riuscire a far diventare impresa la propria passione .
Qualcosa del genere accadrà anche a un astronauta che a Livorno (e alla Kayser) ha avuto un po’ di radici: Paolo Nespoli era un parà delle forze speciali (Col Moschin) con impiego sicuro e carriera super, ma a trent’anni pianta tutto e va negli States a studiare inglese e ingegneria aerospaziale («mi incoraggiò Oriana Fallaci che avevo conosciuto da incursore in Libano») e a 60 anni è tornato sulla Stazione spaziale internazionale.
A raccontare che la comunità aerospaziale internazionale si era data l’obiettivo di sbarcare su Marte nel 2030 sembra, adesso che stiamo annaspando nell’emergenza Covid, quasi una fantasticheria da Lucignolo nel Paese dei Balocchi: un giocattolone per ex bimbi che non hanno smesso di giocare all’astronauta. Ma l’esplorazione spaziale – questo l’argomentare di Zolesi – non è soltanto la voglia umana di misurarsi con l’ignoto e con quel “più in là” che è il motore di ogni avventura intellettuale: costringe a progettare in un contesto talmente altro che la gravità è pressoché zero, non puoi tornare indietro a prendere il cacciavite e devi prevedere al millisecondo interazioni che puoi solo ipotizzare. Insomma, funziona come la Formula Uno, dieci anni più tardi il software di controllo o il nuovo sterzo elettronico te lo ritrovi sulla Audi e fra 15 anni anche sulla Panda.
La Kayser lavora nel cosmo su cento fronti: è centro di controllo in diretta con la stazione spaziale in orbita 400 metri sopra le nostre teste a 28mila chilometri orari, è la “tv dei cosmonauti” che grazie alla rete dei radioamatori europei ha trasferito il segnale di scuola in scuola, è il costruttore del terminal high tech che con una passeggiata all’esterno del veicolo spaziale è stata installata come una sorta di antennona per dare la banda larga all’astronave. Ma è soprattutto un “campione” europeo fra le piccole e medie aziende private che operano nel campo delle scienze della vita: sono più di dieci anni che l’azienda aerospaziale livornese si occupa di indagare le conseguenze che ha la microgravità sul corpo umano. Gli effetti sulla muscolatura, sulla trasmissione degli “ordini” del cervello ai vari organi, sulla forza della mano, sulla resistenza dello scheletro e sulla deposizione del calcio sulle ossa. Tutti aspetti indispensabili per capire come reagirà il corpo dell’astronauta a missioni di lunga durata come quelle alla conquista di Marte. Al tempo stesso, siccome la gravità è una sorta di acceleratore di malattie degenerative, si apre una prospettiva tutta da indagare per vedere se la gravità quasi zero è utile per spingere più in là le frontiere delle cure di patologie croniche.
Alla Kayser hanno, a esempio, tenuto gli occhi puntati su «72 larve di Caenorhabditis elegans, un microscopico verme lungo un millimetro così utile per approfondire certi segreti della muscolatura umana». Non è un segreto che già oggi, per quanto siano ancora ai primi passi, esistano già simulatori per cure fisioterapiche di ultimissima generazione. Non solo: molte cose nella medicina di precisione potrebbero fare un balzo se la somministrazione fosse nanometrica, dunque per dimensioni minimissime (centomila volte meno di un capello).
Chissà se sarà proprio il 2030 l’anno dell’avventura per mettere piede umano su Marte. Anche perché la prossima missione relativamente “normale” – e dovrebbe esserci anche Kayser – è prevista per il 2026. Fra gli esperimenti messi in fila dall’équipe livornese ce n’è uno che ha a che fare con il “bio-mining”, cioè attraverso il comportamento di alcuni microbi su una lastra di basalto nel cosmo intuire quali prospettive possa avere l’estrazione di metalli da minerali grazie all’uso di microorganismi. Il motivo? Ve l’immaginate se gli astronauti, anziché portarsi dietro tutto, potessero estrarre su Marte qualcosa di cui avranno bisogno? —
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