Raoul Casadei, il re del liscio, ci ha lasciato. Lo piangono dalle balere, dalle feste in piazza e dalle sagre di paese. Si fa per dire, oggi che questo genere di assembramenti sono soltanto un vago ricordo. Il suo mondo però era quello lì, anche se dire “suo” non è del tutto corretto: lo aveva ricevuto in eredità dallo zio Aurelio Casadei, detto Secondo. 

Per trovare le origini del liscio, però, occorre fare ancora qualche passo indietro, fino ad arrivare, con la fine dell’800, a Carlo Brighi detto “Zaclén” (“anatroccolo”, in romagnolo: era un cacciatore di anatre). Si tratta di origini piuttosto colte: il violinista Brighi alternava alle sale da ballo, i teatri d’opera con l’orchestra di Arturo Toscanini. Dal 1890 in poi, però, scelse definitivamente le prime, fondò la sua orchestra e cominciò a girare la Romagna suonando polche, mazurche e valzer.

Dal valzer al nuovo folclore romagnolo

Zaclén si distacca completamente dalla tradizione e mette in opera una radicalizzazione tutta sua. «Il valzer veniva suonato e ballato in maniera lenta, morbida», spiega Miro Gori (storico), «I ballerini galleggiavano con cadenze da corte, da alta borghesia. In Romagna cambia tutto: con la musica dell’orchestra di Zaclén non si galleggia più, ma si danza a una velocità vorticosa».

E qui torna in campo Secondo Casadei, che fa propria la lezione di Zaclén, rinnovandola. Guarda alle canzonette, velocizza il ritmo, introduce alcuni strumenti che venivano dall’America (la batteria, per esempio), ma rimane con un piede nel folclore e invece di scrivere canzoni in italiano, dà vita alla canzone dialettale romagnola, che si può ballare, ma anche cantare. Tra le più amate - ripresa anche da Raoul - ricordiamo Un bes in bicicleta.

Perché si chiama “liscio”

Innanzitutto, va detto che il nome “liscio”, con cui ormai tutti chiamiamo il genere folcloristico romagnolo, Casadei zio non l’ha mai adoperato, non gli è mai andato giù: «La nostra musica frizzante e briosa tutto mi sembra essere, fuorché una cosa liscia». In realtà, l’espressione “liscio” non ha tanto a che fare con il ritmo della musica, quanto con il modo in cui da sempre viene ballata, in un continuo lisciar di piedi. «Si balla strisciando i piedi sulla pista della balera… Ma quando mai! I piedi volano, saltellano, punta e tacco, audaci giravolte e imprevedibili figure, come in un film di Gene Kelly. Anzi meglio!», ha detto tranchant Leandro Castellani, biografo ufficiale di Secondo.

«Romagna mia» in origine era «Casetta mia»

Romagna mia, spesso erroneamente associata a Raoul, è farina del sacco di Secondo. «Fu una canzone che scrisse interamente lui», aveva raccontato lo stesso Raoul, «melodia e parole, senza collaboratori. Lui l’aveva chiamata Casetta mia, dedicandola alla sua casa di Gatteo Mare, ma non ci credeva più di tanto e la teneva in panchina. Quando, a un certo punto, si trovò a doverla incidere, fu Dino Olivieri, dirigente della casa discografica, a suggerirgli il titolo definitivo: “Casadei, perché Casetta mia? Lei è un romagnolo purosangue, la chiami Romagna mia”. Mio zio rimase folgorato: cambiò lì per lì qualche parola e nacque il pezzo».

Liscio e vergogna

«Da ragazzina, ero una rockettara. Non che fossi contro la musica di mio padre, però, quando fuori incontravo persone nuove, soprattutto ragazzi, mi presentavo solo come Riccarda, senza dire il mio cognome, altrimenti mi prendevano in giro e mi dicevano: “Sei la figlia di Secondo Casadei? Sei la figlia di quello dei valzer, dell’orchestra campagnola?” Così, con un tono un po’ dispregiativo». 
Già, perché, negli anni ‘60, America e Inghilterra avevano spazzato via tutto, i giovani volevano il nuovo anche in Romagna, la fisarmonica era un buffo strumento da museo e il liscio non era da vecchi, era proprio da matusalemme. Soprattutto, sì, era il genere del popolo, ma la canzone popolare per essere considerata e apprezzata doveva essere di denuncia, di protesta, doveva alludere al mondo del lavoro e della condizione sociale. Il liscio era leggerezza e divertimento, in anni in cui il disimpegno non era concepito. Era un'arma di distrazione di massa, una parentesi tra le grandi questioni di vita da affrontare che in fondo suscitava sospetto. Soprattutto per i giovani, la musica doveva avere ben altro spessore; anche se poi i festival rock finirono presto mentre Raoul e i suoi seguaci tennero duro e i festival dell'Unità democraticamente accettarono tutto, valzer, mazurche, cantautori e rock'n'roll. Della felicità, alla fine, non ci si vergogna mai. Non a caso, anche nell'anno 2021, la balera è sinonimo tanto di tempi andati quanto di genuinità e il liscio, quello sempre (anche grazie a Casadei), sa di estate.