Da novembre del 2011, l'Italia non ha un governo di centrodestra. Un dato che potrebbe essere semplicemente l'effetto della volontà degli italiani. Il problema però è che di questo rapporto causa-effetto non c'è alcuna traccia. Tranne che in rare eccezioni, il Pd non ha mai rappresentato il partito più forte, e il centrosinistra non ha mai avuto il consenso della maggior parte degli italiani. Elezioni nazionali e locali hanno mostrato un'Italia spaccata, disomogenea, ma mai proiettata verso sinistra. Al contrario, abbiamo avuto un Paese in cui a volte la maggioranza sembrava nettamente rivolta verso destra, con picchi più o meno alti di sovranismo. Ma nella migliore delle ipotesi, il centrodestra ha potuto tutt'al più contare come appoggio a un esecutivo di cui non ha espresso il leader né ministri realmente di peso, né dettare l'agenda. L'esperienza Monti in questo senso è stata eclatante, così come non va dimenticato che il momento dell'ascesa del Conte bis è stato sì il frutto di una clamorosa ritirata di Matteo Salvini, ma anche causato dal timore che il vento "destrorso" potesse nuovamente abbattersi sulle aule parlamentari con elezioni anticipate.
Il meccanismo costituzionale, sia chiaro, non è mai stato leso. Tutto è stato realizzato nell'alveo della norma fondamentale italiana in cui il governo è specchio del parlamento, che a sua volta è espressione della sovranità popolare. Le elezioni hanno seguito un loro calendario più o meno regolare e i rimpasti di governo sono sempre stati condotti nel pieno e rigido rispetto dell'ortodossia della Costituzione.
Tuttavia, non può non destare qualche perplessità il fatto che in 10 anni il Partito democratico, che di elezioni ne ha vinte ben poche, insieme a partiti che non hanno vinto mai realmente un'elezione e mai hanno rappresentato la maggioranza degli italiani, sia saldamente al governo. Dopo Silvio Berlusconi, ultimo leader espressione di un voto popolare, il Pd ha portato a Palazzo Chigi ben tre elementi (Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni), un tecnico come Mario Monti, che però nei fatti è ben più vicino al mondo democratico che a quello del centrodestra, e infine lo stesso Giuseppe Conte, convertito sulla via di Damasco da populista e progressista e che è diventato, a fine mandato, "più democratico dei democratici".
Sembra paradossale che il Paese che viene continuamente additato come il più euroscettico e sovranista, dove si continua a lanciare l'allarme sull'onda verde, azzurra o nera a seconda dei tempi, sia anche lo stesso Paese governato per otto anni e mezzo su dieci dal centrosinistra.
Le cose a questo punto sono due. O il consenso popolare non è più considerato necessario nella definizione di un governo, cosa che dovrebbe a questo punto interessare filosofi del diritto, giuristi e politici. Oppure siamo di fronte a una strategia magistrale del centrosinistra, che ha saputo trasformare l'Italia nel laboratorio di un sogno: governare senza vincere.
Tra illustri costituzionalisti, qualcuno ha pensato di interpretare l'articolo 88 della Costituzione - quello che assegna al presidente della Repubblica il potere di scioglimento delle Camere - inserendo la possibilità che questo possa scattare anche quando non ci sia più corrispondenza tra elettori ed eletti. Si parla di casi gravi, certamente. Ma l'Italia sembra essere ormai giunta al paradosso: la distanza tra elettorato e eletti (e del governo che esprimono) non è solo netta, ma anche normale.