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Livorno, l’allarme del primario Sani: «Basta movida, chiudere la città o tra poco conteremo i morti»

Livorno, l’allarme del primario Sani: «Basta movida, chiudere la città o tra poco conteremo i morti»

Il direttore di Malattie Infettive: «L’afflusso in ospedale è superiore a marzo, i reparti allo stremo, non saremo in grado di reggere l’urto» 

«Mia figlia mi ripete “babbo, il lockdown è stato un disastro, non potremmo sostenerlo di nuovo”. Io le rispondo che il disastro potrebbe essere vedere la fila delle bare lungo le strade come è successo in Lombardia».

Alla scrivania del suo ambulatorio, al pian terreno del 9° padiglione nuovamente trasformato in reparto Covid e già quasi pieno, Spartaco Sani, primario di Malattie Infettive degli Spedali Riuniti, disegna un quadro spettrale di quello che potrebbe essere il futuro (anche) di Livorno: «Se non sarà imposto il lockdown, faremo la fine di Bergamo», sentenzia.

Che cosa la preoccupa di più, dottore?

«Le rispondo con alcuni dati: il 2 marzo ci fu il primo paziente positivo a Livorno, il 10 marzo il nostro reparto era già pieno di malati, il 9 marzo era cominciato il lockdown, il 24 marzo si è avuto il picco dell’afflusso in pronto soccorso e da lì è iniziato il calo. Ecco, oggi stiamo assistendo ad un’affluenza simile, se non maggiore in ospedale, ma non abbiamo la stessa prospettiva di allora, perché non è prevista la chiusura totale».

È un problema di tenuta dell’ospedale?

«Il sistema sanitario è sotto forte pressione. Gli operatori sono rientrati in un vortice di grande difficoltà, sono molto provati e il personale non è al completo perché è stato quasi impossibile reperire operatori in più, soprattutto medici».

Dunque se i numeri dovessero continuare a salire non è garantita la qualità dell’assistenza?

«Il problema è proprio questo: se arriva un afflusso di tanti pazienti tutti insieme, peggiora la qualità dell’assistenza e la mortalità aumenta. Vede, nella seconda settimana di agosto abbiamo ricominciato a vedere pazienti, anche giovani, con polmoniti importanti: i primi casi rivisti in Rianimazione erano albanesi tornati dal loro paese, o turisti di rientro da Madrid. Ne arrivava uno a settimana e sono stati gestiti nel modo migliore. Ma se fossero stati 10 o 20 insieme, come li avremmo gestiti con le stesse risorse? La mortalità iniziale, terribile, è derivata anche dal fatto che in certe città gli ospedali sono stati travolti da tanti casi tutti insieme».

Lei parla di lockdown, ma il nuovo decreto ha previsto una serie di limitazioni e alcune Regioni hanno già deciso il coprifuoco notturno. Non crede che basti?

«Io penso che le misure che sono state prese - che sono giustissime - abbiano un’alta possibilità di essere insufficienti e che tra poco il lockdown andrà fatto lo stesso e in condizioni ancora peggiori, quando gli ospedali non saranno più in grado di reggere l’urto».

Ma una chiusura totale come a marzo creerebbe ricadute disastrose sull’economia, su migliaia di aziende, senza considerare le conseguenze anche psicologiche per la popolazione.

«Mi rendo conto dell’enorme difficoltà e dei problemi, ma sono convinto che - magari salvaguardando la scuola e le attività lavorative - si debba intervenire drasticamente».

Il nuovo decreto ha dato anche ai sindaci il potere di intervenire: cosa dovrebbero fare?

«Lasciare la decisione ai sindaci mi lascia perplesso: il problema è ovunque, è nazionale. Ad ogni modo la movida va tolta, bisogna mettere il coprifuoco, ma non alle 23, così non serve a nulla, va fatto molto prima. Bisogna evitare tutte le cose che non sono indispensabili: si va a lavoro e si torna a casa. Altrimenti tra qualche settimana si arriverà a un lockdown simile a quello di marzo con numeri incontrollabili e il danno sarà peggiore di quello che sarebbe farlo ora».

Le differenze con la prima ondata però sono notevoli, a partire dal numero dei decessi che è assai inferiore.

«Il numero dei morti sta aumentando. Tuttavia è vero che ce ne sono meno».

Perché?

«Stiamo vedendo persone anche relativamente giovani, intorno ai 50 anni, con polmoniti severe che hanno bisogno di assistenza respiratoria: al momento tra loro non c’è stato neanche un morto probabilmente perché abbiamo migliorato le cure e per la loro età. È una popolazione più sana e reagisce meglio alle terapie».

Per i soggetti a rischio la mortalità resta la stessa?

«L’ultrasettantenne diabetico, iperteso o cardiopatico che si ammala e finisce in Terapia Intensiva rischia altamente di non farcela».

Adesso com’è la situazione in ospedale?

«Abbiamo 56 ricoverati, di cui 17 qui a Malattie Infettive, gli altri al 2° padiglione e 6 in Rianimazione».

In che condizioni?

«Tre sono intubati e altri tre si trovano in ventilazione non invasiva ma sono compromessi, situazioni molto serie».

L’afflusso sembra più alto per i reparti Covid che per la Rianimazione: è vero?

«Si stanno intercettando tanti pazienti che non stanno malissimo: sono persone che devono stare in area Covid. Più che per le Terapie Intensive, il problema è per i posti di degenza ordinaria».



Dunque molti ricoverati non sono messi così male?

«Arrivano anche pazienti che potrebbero ewstare a casa, ma chi si sente male, chi ha una polmonite anche modesta e non può essere gestito sul territorio rappresenta comunque un problema serio che necessita di un ricovero».

C’è un problema con la medicina territoriale?

«Diciamo che nonostante l’impegno delle Usca (le unità speciali di medici dedicati al Covid, ndr), i casi sono così tanti che la gestione dei pazienti a domicilio e il tracciamento sono ormai fuori controllo, a Livorno, in gran parte della Toscana e dell’Italia».

Quanto dura una degenza media?

«Ogni giorno dimettiamo qualcuno, ma è difficoltoso: chi ha una malattia Covid e necessita di ospedalizzazione sta qui minimo tre settimane».

Il risultato è che i posti letto diminuiscono giorno dopo giorno togliendo spazio alle altre attività sanitarie.

«Il Covid è un dramma per chi lo prende e anche per chi non ce l’ha ma ha altre malattie. Noi per esempio abbiamo chiuso l’ambulatorio di Malattie Infettive. La verità è che il Covid distrugge gli ospedali».

Si va anche verso uno stop agli interventi chirurgici programmati...

«A marzo la gente si è impaurita e ha smesso di venire in pronto soccorso, quindi il carico extra-Covid si è notevolmente ridotto e questo ha consentito di convertire le risorse da altri reparti verso le aree Covid. Ora questo non sta succedendo, in parte perché è giusto che la gente venga curata, ma non avendo una riduzione del carico, in questa fase il peso non è ridistribuito sul personale di tutti i reparti. Per cui c’è una difficoltà aggiuntiva gestionale. E alla fine, se continua l’afflusso, ci sarà necessità di ridurre i servizi: la Regione non vuole farlo, nessuno vuole farlo, ma se si continua così, già da oggi non vedo altra soluzione se non ridurre una parte delle attività perché non siamo in grado di gestirle».

I pazienti di Malattie Infettive dove li avete spostati?

«Il lavoro del reparto di fatto si tronca qui, i nostri malati, che erano non contagiosi, ora sono a Nefrologia. Da ora gestiremo solo l’indispensabile».

Il rischio dei contagi ospedalieri resta tra i più temuti.

«Voglio dare un messaggio chiaro: non bisogna venire in ospedale. Non bisogna venire a visitare i parenti: capisco che sia drammatico, ma se uno positivo attacca il Covid a un degente, succede un pandemonio. Le epidemie intraospedaliere nascono fuori da queste mura, non dentro, ma una volta che il virus gira in corsia non si torna indietro».

Perché alcuni suoi colleghi, anche di fama nazionale, spesso hanno parlato di un allarme esagerato in merito al Covid?

«Io ritengo che Crisanti e Galli esprimano la situazione nella maniera più corretta e intelligente. Poi c’è il gruppo dei Bassetti e degli Zangrillo che hanno avuto sempre un atteggiamento che ha favorito la non presa di coscienza del problema. Qualcuno dovrebbe chiedere scusa: è stato lanciato un messaggio di tranquillità, quello che la gente voleva sentirsi dire. Non si capisce il perché. Tra l’altro sostenendo cose confutabili nei dati, a partire da quando hanno affermato che il virus è morto: non è vero, il virus è uguale, e se in un certo momento si erano ridotti i casi, era proprio allora che si doveva insistere. Si doveva aspettare il contagio-zero come in Cina. E invece si è sbagliato tutto, riaprendo le città e le frontiere...».

L’annunciato arrivo del vaccino la rasserena?

«Guardi, questo virus si vince sul territorio dal punto di vista epidemiologico, bloccandone ed eliminando la trasmissione. È l’unica cosa che possiamo fare, l’unica arma seria che abbiamo. Anche quando arriverà il vaccino, sempre che funzioni, dovremo bloccare la trasmissione. Siamo su un crinale pericolosissimo, forse è già tardi. Lo ridico: il lockdown totale sarebbe l’ideale. Non voglio spaventare, ma la situazione è drammatica». —
 

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