Un romanzo storico, ambientato durante la Seconda guerra mondiale, in Istria, che tocca un argomento molto importante e al centro, tuttora, di grandi dibattiti: le controverse vicende delle foibe. È “La stanza di Piera”, di Stefania Conte (Morganti editori), arrivato da poco nelle librerie, che racconta la storia di Piera Leoni, istriana di Fianona, ricamatrice di rose, e di Libero, giovane idealista cresciuto ad Albona.
Stefania Conte alterna la professione di editor con la scrittura di romanzi e racconti. È sposata con lo scrittore Paolo Morganti e vive in Carnia. Ecco, per gentile concessione dell’editore, una parte della postfazione di Angelo Floramo, che illustra il romanzo.
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Quando mi viene chiesto di esprimermi su di un testo in cui si parla dei drammi che le popolazioni del confine orientale hanno vissuto durante il secolo breve, provo sempre un forte senso di disagio.
Specialmente se si evoca il dramma delle fòibe. Perché temo che si tratti dell’ennesima sbandierata di parte, o di un colore o di quello avverso, in cui le voci si alzano scomposte, forsennate, senza la debita lucidità.
Già i testi di storia, i saggi, i manuali fanno generalmente una scelta di campo e cercano di dimostrare i loro teoremi, generalmente evitando con cura di portare davanti al tribunale della storia anche la più piccola informazione che possa sminuire il loro punto di vista.
Se questo vale per quelle pagine che dovrebbero potersi dire “scientifiche”, è facile immaginarsi quello che capita nell’ambito della letteratura, dove la penna di chi scrive intinge nel calamo delle emozioni e le suscita spesso scadendo in quel grottesco carnevale in cui ci sono sempre i buoni, innocenti e vittime, e i cattivi, quelli malvagi senza remissione, incarnazione stessa dell’odio e della ferocia.
Negli ultimi anni ne abbiamo lette e viste fin troppe di rappresentazioni scadenti e deteriori di questo tipo, dalla fiction televisiva alle migliaia di pagine inutili, o peggio dannose, perché si animano con il dolore di chi quegli eventi li ha vissuti sulla sua stessa pelle e su quella dei suoi cari.
Per questo sono entrato nel libro di Stefania Conte in punta di piedi e con uno sguardo circospetto.
Con un senso di disagio anche maggiore, per il fatto che stimo moltissimo l’autrice, di cui ho letto e apprezzato sagacia e delicatezza narrativa nelle sue opere narrative precedenti.
E ho quasi provato un senso di stizza, chiedendomi perché mai volesse affrontare una materia tanto incandescente tralasciando i mondi immaginifici di gatte visionarie o di famiglie bislacche che tanto mi hanno divertito in questi anni, facendomela apprezzare nel panorama letterario contemporaneo.
Ma sono davvero bastate poche pagine perché tirassi un sospiro di sollievo, mi sedessi comodo e rilassato sulla poltrona del mio studiolo e mi lasciassi prendere dal racconto, scritto bene e avvincente. Ma soprattutto onesto.
Eh sì, perché l’autrice butta subito sul tavolo un asso capace di conquistarmi e di farmi capire che il tenore del narrare sarà tutt’altro che banale: l’incendio dei Narodni Dom avvenuto a Trieste nel 1920, quando il Balkan e diversi altri centri minori ma non meno significativi della cultura slovena cittadina vengono dati alle fiamme dai fascisti, nella totale indifferenza della popolazione.
Un’azione violentissima, esemplare, tesa a dimostrare che la superiorità della “razza italica” avrebbe dovuto imporsi in ogni modo e con ogni forma contro tutti quei “pidocchi” – così erano stati definiti – che ne infestavano la grandezza e la purezza.
E questo due anni prima del trionfo della “rivoluzione fascista”, i cui esiti, in queste nostre terre meticce e di frontiera, furono davvero crudeli e spietati, giungendo non solo a teorizzare, ma anche a mettere in pratica una politica “etnocida” nei confronti di quegli sloveni e di quei croati che loro malgrado erano diventati sudditi del Regno d’Italia. —