VENEZIA. Condanne per oltre 116 anni e somme confiscate per più di 15 milioni di euro. Sì è chiuso così martedì nel primo pomeriggio in tribunale a Venezia il processo in abbreviato a carico del clan della ‘ndrangheta dei Bolognino, famiglia al cui vertice c'è Michele Bolognino, figura centrale del processo Aemilia.
L’indagine Camaleonte è quella sul cosiddetto “clan Bolognino” dal cognome dei fratelli considerati a capo dell’organizzazione, in collegamento con la famiglia calabrese Grande Aracri, cioè la più potente organizzazione di ’ndrangheta del Nord Italia, che ha fatto base in Emilia e in Veneto. Un'espansione a nord-est degli affari criminali già radicatisi negli anni a Reggio Emilia.
Accolte in gran parte le richieste dell’accusa. Centocinquant’anni di carcere e 11 milioni di euro di confische era infatti il totale delle pene avanzate dalla pm della Distrettuale antimafia Paola Tonini per i 34 imputati che hanno scelto il rito abbreviato davanti al giudice per l’indagine preliminare Luca Marini. Il giudizio abbreviato, che permette allo Stato di risparmiare tempo e denaro, garantisce agli imputati uno sconto automatico di un terzo della pena.
Nel dispositivo della sentenza le condanne piu pesanti riguardano propri i fratelli Bolognino. Michele è stato condannato a 13 anni e 4 mesi, Francesco a 6 anni e 4 mesi. Entrambi erano accusati di associazione mafiosa (416 bis) . Tra gli imprenditori veneti coinvolti nell’inchiesta della procura di Venezia Adriano Biasion è stato condannato a 3 anni mentre Leonardo Lovo a 2 anni e Federico Schiavon a 1 anno.
Gaetano Blasco, altro imputato di vertice nel processo Aemilia, è stato condannato a 3 anni e 8 mesi di reclusione. Marco Carretti a 2 anni e 6 mesi. Donato Agostino Clausi altri 2 anni e 4 mesi di reclusione da aggiungere all'Appello di Aemilia, con condanna rideterminata a 12 anni e 6 mesi di reclusione. Giani Floro Vito è stato condannato a 6 anni, Giulio Giglio a 6 msi, Salvatore Innocenti a 3 anni,
A parlare di un giro di riciclaggio di denaro sporco di circa 200-250 mila euro al mese è stato il pentito Giuseppe Giglio, che con quei soldi pagava le false fatture emesse dagli imprenditori compiacenti. I due ricevevano il danaro da Giglio, lo davano a una delle società compiacenti (non senza aver prima trattenuto per loro dal 7 al 10%), che acquistavano a loro volta falsi servizi da una delle imprese direttamente gestite dalla cosca: così i soldi tornavano all’origine.
Finché l’Iva era agevolata al 10% – dice l’accusa – questo era il loro guadagno, ma quando l’aliquota era al 22%, il compenso per Lovo, Biasion e l’imprenditore alberghiero veneziano Federico Semenzato (la cui posizione è stata stralciata, perché ha pagato le pendenze con il fisco) è sceso al 7%.
Prosegue intanto a Padova il processo con rito ordinario a un’altra parte del clan, compreso Sergio Bolognino,con quartier generale a Tezze sul Brenta, ritenuto al vertice dell’articolazione veneto-emiliana.
Ad accendere per primo i fari sull'attività del clan Bolognino era stato il deputato padovano Alessandro Naccarato che aveva portato la scalata del clan a un'inustria di scaffalature all'attenzione della Commissione antimafia.