Roberto Bianchini, titolare dell’Otorino a Belluno, così ricostruisce passo per passo le sue vacanze in Thailandia, il ritorno in città e la sua positività
BELUNO. «Dopo 30 anni che curo i pazienti mi vengono a dire che li ho fatti ammalare. Credo nella giustizia, so che riuscirò a dimostrare la verità. Intanto però mi ricoprono di fango: la figura del primario è troppo ghiotta, non potevano perdere un’occasione per colpirmi».
Dottor Roberto Bianchini, a chi si riferisce?
«Meglio che non risponda a questa domanda».
Come le è venuto in mente di tornare al lavoro con la febbre?
«Io non sono tornato al lavoro con la febbre e, soprattutto, non sono tornato da un luogo a rischio. A Koh Samui, l’isola in cui sono stato, il primo contagiato è stato censito il 26 marzo. Ancora oggi la Thailandia ha meno contagi della provincia di Venezia. Io sono tornato il 24 febbraio».
Qual è, dunque, la scansione temporale?
«Il 24 febbraio torno al lavoro e faccio un breve colloquio con il Dipartimento di prevenzione, come richiesto. Si sono resi conto che non tornavo da un paese a rischio. Stavo bene e sono tornato in servizio».
Non aveva la febbre?
«No, la febbre è salita il 4 marzo: tre linee. Mai avuto un colpo di tosse, raffreddore o mal di gola. Dire che sono andato a lavorare da malato è una forzatura. Lo stesso infettivologo mi ha detto che i sintomi avvertiti non rientravano in alcuna fattispecie compatibile con il Covid. Così ho continuato a lavorare».
Quando si è aggravata la situazione?
«Alle 18 del 9 marzo la febbre è salita a 37, 8 e così sono tornato a casa. Ho fatto il tampone e il 10 marzo sono risultato positivo».
Cosa ricorda di quel giorno?
«Le gente intorno a me era come impazzita. Quando si è diffusa la notizia ho visto la paura negli occhi delle persone che lavorano nel mio reparto. C’era gente che piangeva, altri erano arrabbiati. È in quel momento che si è messa in moto la macchina del fango».
Quanti contagi le attribuiscono?
«Quattro, tra cui un collega».
Soltanto quattro? Lei ha visitato una cinquantina di pazienti in quei giorni.
«E vorrà pur dire qualcosa. Poi c’è un altro aspetto non secondario. In Thailandia ci sono andato con mia moglie e con un’altra coppia. Dei quattro sono l’unico ad aver contratto il virus. Io ne sono convinto: il virus l’ho preso in ospedale».
Come può dire questo?
«Perché non ci siamo con i tempi di incubazione».
Come si sente ora?
«Molto male ma ho avuto una solidarietà incredibile. Ho tanti nemici ma anche tanti amici. Certo, non è facile lavorare concentrati. Penso di avere tutta la documentazione necessaria per uscire pulito da un caso come questo».
Sia sincero: proprio non c’è stato alcun comportamento sbagliato da parte sua?
«Con la lente d’ingrandimento magari qualche sfumatura da correggere ci sarebbe. Adesso sarebbe diverso ma bisogna contestualizzare i fatti. Il 24 febbraio si sapeva poco o nulla del virus».
Dicono che abbia anche una certa ritrosia a usare guanti e mascherine. È vero?
«Assolutamente no. Io ho usato i guanti quando andavano usati. In ospedale la mascherina è stata resa obbligatoria il 13 marzo. Io sono risultato positivo il 10».
Da chi è partita la denuncia? L’ha saputo?
«Dalla direzione sanitaria, sulla base di quanto si leggeva su Facebook. Non mi hanno denunciato i pazienti».
Quindi cosa c’è sotto? Invidia dei colleghi?
«No, non credo. Semplicemente è partita la macchina del fango ed è scappata di mano. La figura del primario, la vacanza in Thailandia: lo stereotipo perfetto. Ho compiuto 61 anni due giorni fa, ho fatto tanta strada. Dimostrerò che ho ragione io». —
© RIPRODUZIONE RISERVATA