VENEZIA.
Una storia di sfruttamento e lavoro nero che sembra arrivare da epoche e terre lontane e, invece, vede protagonista e vittima (ora riscattata) una donna residente in provincia di Venezia che per 37 anni ha lavorato come impiegata contabile per un’azienda del padovano, in nero per oltre un trentennio.
Ora, però, dovrà essere risarcita: il Tribunale del lavoro di Venezia ha, infatti, condannato l’impresa - una falegnameria - a risarcire alla sua “dipendente” un totale di 598 mila euro, a copertura delle differenze retributive, tra quanto percepito in nero e quanto avrebbe invece dovuto guadagnare con il suo lavoro. Più gli interessi maturati in una vita: dal 1980 al 2017, quando è andata in pensione.
«Il principio applicato dal Tribunale è quello che i crediti da lavoro nei rapporti precari non si prescrivono mai», commenta soddisfatto l’avvocato Enrico Cornelio, che ha patrocinato la causa dell’impiegata, «la signora aveva poco più di 30 anni quando fu assunta come impiegata contabile da una piccola ditta individuale di legname. Nell’85, dopo una gravidanza, ne fu simulato il licenziamento, ma continuò a lavorare in nero: prima in ufficio in falegnameria, poi da casa. Chiusa la ditta individuale a Pionca, il lavoro proseguì con una s.a.s. amministrata dalla moglie dell’artigiano, trasformatasi poi in s.r.l. Raggiunta l’età pensionabile, fu licenziata con una liquidazione per il solo breve periodo di lavoro nella s.r.l. in cui non era mai stata conteggiata l’anzianità raggiunta nel rapporto durato una vita. Da qui la causa».
Per la giudice Anna Menegazzo appare accertato che «la ricorrente proseguì nell’espletamento dell’attività lavorativa a favore dei resistenti, senza sostanziali modifiche dal 1985 al 1991, nonostante la completa assenza di regolarizzazione, nonché nel periodo successivo, in cui l’attività venne presso la propria residenza in cui erano confluiti documenti, mobili e strumenti della ditta».
Così hanno confermato gli operai della falegnameria, lo stesso dipendente della banca della filiale di Mirano che seguì i conti dell’impresa dagli anni Ottanta fino al 2010. E poi, ancora, le testimonianze di un’amica e del figlio della donna: lo stesso “bambino” – ora adulto – che aspettava quando venne licenziata e iniziò a lavorare in nero.
«La documentazione e le testimonianze assunte in giudizio», prosegue la giudice, nella sua sentenza, «consentono di ritenere dimostrato che la ricorrente era pienamente inserita nell’organizzazione aziendale. Non risulta contestato che percepisse a cadenze fisse uno stipendio concordato mensile e che fruisse regolarmente di ferie, è provato che svolgesse attività lavorativa quotidiana. Indici significativi che depongono univocamente per il carattere subordinato del rapporto». Fatti i conti delle differenze retributive si arriva a un totale di be 598 mila euro, più 10 mila euro di spese legali. Gli imprenditori condannati potranno ricorrere in appello. —
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