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Non fatevi fregare da Netflix: cosa c'è dietro "The Social Dilemma"

"Se non paghi per il prodotto, il prodotto sei tu". A ormai una decina d'anni dall'esplosione massiva dei social network, questo concetto è - o dovrebbe essere - chiaro a tutti quelli che hanno un account su uno dei tanti portali online. Un concetto spiegato sempre molto bene nei lunghi "Termini di servizio" che tutti accettiamo senza neppure leggere quando ci iscriviamo a ogni servizio. Ma anche alla base di "The Social Dilemma", un docudrama distribuito da Netflix che già tanto fa discutere.

Il dilemma del titolo è uno solo: è giusto che i social media sfruttino in tutti modi la psicologia per catturare l'attenzione degli utenti e riuscire così a vender loro le inserzioni pubblicitarie che pagano la piattaforma stessa? Un tema sicuramente interessante e non scontato, ma affrontato nel documentario con un tono sensazionalistico e una commistione tra fiction e realtà che lo rende a tratti persino poco credibile.

Le interviste a giovani "ex dipendenti" (di Google, Facebook, Twitter, ecc) che raccontano come nasce "l'algoritmo" che prevede e condiziona le nostre vite si alternano alle immagini - recitate, appunto - di una tipica famiglia americana con tre figli (la più grande critica nei confronti dei social, l'adolescente che li usa per relazionarsi con i compagni di scuola e la 14enne totalmente assuefatta dai like). Ma soprattutto con una ricostruzione del famoso "algoritmo" degno di Inside Out: un avatar virtuale dell'adolescente e tre personaggi che lo spiano e lo spingono a passare più tempo possibile davanti al telefonino. Il tutto condito da una grafica futuristica e un linguaggio improbabile - con tanto di "resurrezione" quando il ragazzo si disconnette - per esasperare l'idea di un "Grande Fratello" che muove i fili (virtuali) a cui siamo collegati. L'essere umano viene ridotto a "elemento di calcolo" di un "super cervello globale", senza possibilità di libero arbitrio.

Le voci narranti di tutto il documentario sono poi quelle - lo ripetiamo - di ex dipendenti delle più famose aziende della Silicon Valley. Molti giovani e sicuramente ancora attivi in campo lavorativo. Nessuno è andato via in malo modo, quasi tutti dicono di essersi licenziati proprio per il "dilemma etico" alla base del documentario. Difficile quindi che dicano tutta la verità sugli algoritmi e sulla possibilità dei colossi del web di spiare i propri utenti. Sia perché rischierebbero - senza prove - una querela non di poco conto, sia perché difficilmente potrebbero continuare a lavorare in quel mondo. E in effetti non fanno che ripetere concetti già ampiamente conosciuti e dibattuti, senza svelare nessun segreto.

Inoltre molte delle critiche avanzate sono le stesse rivolte in passato agli altri media. Basti pensare a tutte le elucubrazioni sulla tv commerciale degli anni '80 e '90 in Italia. A quanto anche programmi come "Drive In" o "Non è la Rai" suggerissero un'ideale di bellezza irreale, proprio come fanno oggi i social network. O basti pensare a tutte le tecniche usate per disporre i prodotti in un supermercato (sì, anche lo scaffale dei biscotti condiziona le nostre scelte).

Ma il problema più grande del documentario è che di fatto non analizza la questione, ma si limita a girarci intorno in un crescendo di demonizzazione estrema di quello che c'è dietro ai social media. Dice di non avercela con qualcuno in particolare, che "non c'è un cattivo" contro il quale prendersela. Eppure parte da una tesi predefinita e fa di tutto per dimostrarla. Il mondo viene descritto in modo manicheo, o bianco o nero. Non si suggerisce - se non vagamente alla fine - un uso consapevole della tecnologia, ma che la soluzione è disattivare, non usare, cancellare. E non dice che se è vero che il "feed" può condizionare il nostro comportamento, è vero anche il contrario. Per dirla con un esempio: probabilmente non vi siete fatti crescere la barba perché continuate a vedere inserzioni su prodotti per la barba, ma continuate a vedere le inserzioni su prodotti per la barba perché avete la barba lunga (e almeno una volta avete mostrato interesse per quell'inserzione).

Con questo non vogliamo dire che il documentario sia esagerato o che il "dilemma etico" che pone non sia importante. E anzi, crediamo che la questione vada affrontata in modo più serio soprattutto con in più giovani, magari meno abituati a chiedersi cosa ci sia dietro uno "swipe up". È vero che l'interfaccia di un'app che usiamo tutti i giorni modifica il nostro comportamento al pari di una "slot machine", che il tema delle fake news (preesistente al web) diventa con i social un cane che si morde la coda e che è necessaria una regolamentazione per i grandi colossi del digitale (proprio come avvenne per la tv commerciale).

Ma proprio perchè si tratta di una questione non di poco conto, crediamo che vada trattata in modo più serio, senza ridicole scene che suggeriscono l'idea di un "pool di persone" che spiano i nostri comportamenti. E non ignorando completamente vicende come il programma di sorveglianza dell'Nsa o il caso Cambridge Analytica. E soprattutto crediamo che questa questione meriti un tono meno sensazionalistico, l'apertura alle tesi opposte e la non banalizzazione estrema della libera scelta delle persone.

E non dimentichiamo che questo documentario è prodotto da una delle aziende di internet che più permea - ormai - la nostra vita. Che ci profila in continuazione grazie alle serie e ai film che guardiamo, ma anche grazie a tutti i dati in più che le "regaliamo": dove, a che ora, da che dispositivo li guardiamo. Tanto che se abbiamo visto "The Social Dilemma" è probabilmente perché ci è stato suggerito da un algoritmo simile a quello che viene demonizzato nel documentario. E che - dopo tutte le belle intezioni del "migliorare il mondo" e i suggerimenti a evitare di cliccare sui video consigliati da YouTube - il documentario termina... con i consigliati di Netflix.

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