foto da Quotidiani locali
E finalmente rivedo la mia prima liceo dell’anno scorso, forse la classe a cui tenevo di più. Perché il primo anno è importante: si prende confidenza con la realtà di una nuova scuola, ci si misura con le difficoltà, si capisce se si è fatta la scelta giusta, soprattutto si cresce. Spesso capita che quando tornano a settembre, dopo tre mesi di vacanza, alcuni studenti quasi non li riconosci: li avevi lasciati minuti e sbarbatelli, e ora rieccoli qui più alti e meno bambini.
Quest’anno in cui i mesi di separazione sono stati sei, l’effetto è ancora più evidente. Ci incrociamo in corridoio, ci salutiamo con sorrisi ben intuibili sotto le mascherine d’ordinanza. Arriva Giada, decisamente più alta. «Ciao Giada, come sei cresciuta! ». «Grazie, professore! ». A quattordici anni se qualcuno ti dice che ti vede cresciuto, lo prendi come un complimento.
Entriamo in classe, una vecchia aula di disegno riadattata per questa classe numerosa (sono in 29) perché più ampia delle altre. Mi metto alla cattedra, gli studenti ai banchi. L’appello questa volta è un’occasione un po’ solenne: significa ristabilire un contatto, riprendere il filo di un discorso interrotto. Servirà parlare di quello che è successo, far emergere vissuti ed emozioni dal lockdown in poi, ma rimando questo momento. Come rimando quello in cui chiederò conto dei compiti delle vacanze, i tre libri che avevo assegnato per l’estate.
Preferisco dare un segnale chiaro che la scuola è davvero ricominciata. In che modo? Mettendomi, molto semplicemente, a fare lezione. In seconda si leggono I promessi sposi: romanzo straordinario, che la scuola purtroppo non sempre è in grado di far amare. Introduco la figura del loro autore, Alessandro Manzoni. Per scrivere nomi e date, vado alla lavagna. Non la lim (la lavagna interattiva multimediale), ma la vecchia, buona, cara lavagna di ardesia, che in quest’aula per fortuna non è stata ancora rimossa.
È emozionante prendere in mano un gessetto e scrivere, compiere nuovamente, dopo mesi, quel gesto così caratteristico del lavoro di insegnante. Rimane sempre un po’ di polvere di gesso sulle dita o sulle maniche della giacca. Ma la cosa non mi dà fastidio, perché è quasi un segno distintivo della mia professione. I ragazzi prendono appunti, qualcuno fa una domanda. L’ora passa veloce. Credo che non sia mai successo come quest’anno di avere studenti così felici di essere tornati a scuola.
6. – continua
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