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La scuola, un luogo di tante emozioni dove tutti i ragazzi diventano uguali

La scuola, un luogo di tante emozioni dove tutti i ragazzi diventano uguali

Aisha e la lingua sconosciuta, la vivacità di Abel, la solitudine profonda di Giulia, Gaia e la libertà data dai libri

«Allora è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono eguali e se in seguito non lo sono più è colpa nostra e a questo dobbiamo rimediare».

Si racconta che un tempo, rimedio a questa malattia dell’ineguaglianza fosse la scuola. Esattamente, proprio quell’edificio sulle cui facciate scorrono in fila grandi finestre di vetro, dove è possibile intravedere ancora, in questa estate così calda, l’impronta sbiadita dei volti incantati degli studenti. Scrutano il mondo fuori, ogni suo imperdibile dettaglio, e intrecciano coi suoi elementi i loro multiformi pensieri, su un sottofondo di parole pronunciate in fila da insegnanti di ogni specie: appassionati o demotivati, capitati per caso o per scelta, giovani o anziani, autoritari o autorevoli.



Si racconta di un’altra scuola, in cui le vite dei ragazzi si incontrano nei corridoi affollati e si nascondono negli angoli bui dei cortili, a fantasticare su quel mondo fuori che sarebbe diventato loro e che avrebbero forgiato secondo la geometria dei loro sentimenti e delle loro emozioni.

Sì, esisteva un tempo in cui la scuola era luogo di emozioni: condivise, nascoste, sussurrate e gridate, digeribili attraverso la parola dei compagni e dei professori, indigeste quando trattenute dentro di sé a lasciarsene divorare. Prima dell’avvento di questa sospensione delle vite umane, assediate da un nemico invisibile, la scuola era – o provava ad essere – proprio quella descritta: un luogo di trasformazione collettiva delle emozioni in sentimenti, attraverso il gioco e l’apprendimento, e della loro comune reinvenzione in un disegno armonico e stimolante per ogni membro del suo prezioso microcosmo. Quella scuola attende di tornare a respirare attraverso i polmoni dei suoi studenti, nel tenace sforzo di plasmare sé stessa attorno ai loro bisogni, per accoglierli nel suo ventre e lì porre le basi per costruire ciò che ancora non sono. Si badi bene: nessuno escluso! Una scuola che non riapre le sue porte è una scuola che esclude, che lascia indietro chi già indietro si trova; è una scuola che respinge i suoi ragazzi nell’abisso di loro stessi, negando loro il diritto di frequentare quel luogo speciale, che annulla le diversità e rende tutti eguali.


Le storie di Aisha, Abel, Giulia e Gaia sono la testimonianza di quel miracolo umano che solo la scuola rende possibile… «Cara Scuola, spalanca di nuovo le tue porte a questi bambini, altrimenti li perderai per sempre, risucchiati dentro le loro vite malandate! Per loro venire da te è sinonimo di possibilità!».

A scuola Aisha è uguale a Giulia, che è uguale a Gaia e ad Abel: a tutti loro la scuola offre un posto da occupare e dal quale rialzarsi più uguali di prima. Sì, “più uguali di prima”, perché ciascuno di essi sarà nella condizione di avventurarsi nel viaggio più esaltante di sempre: quello dentro sé stessi, alla ricerca di chi si è e di chi si diverrà.



«Ricordi Aisha e il suo sguardo incantato? Lei quando gioca e ride si colora del colore del cielo e coccola le sue bambole galleggiando su nuvole di zucchero filato». Aisha ha quattro anni e mastica parole di italiano, la lingua del Paese che la ospita, soltanto per gioco; malgrado il suo vocabolario ristretto, riesce a farsi capire: un «ciao come stai», «grazie», «questo è mio non tuo» e un «mi chiamo Aisha», accompagnati da un variopinto corredo di versi e smorfie, possono risultare molto utili a quell’età per comunicare col mondo esterno.

La precarietà di quel linguaggio è però esplosa con tutta la sua violenza disarmante quando Aisha non è più potuta andare a scuola; dalla sua cameretta, continuare a frequentare il suo asilo immaginario si è rivelato un’impresa estrema, per lei e per i suoi genitori, disperati alla ricerca di parole che non potevano trovare per capire e per farsi capire. Quando è arrivata l’ora dell’appuntamento telefonico con le maestre, il padre di Aisha ha risposto all’invito con l’inspiegabile fotografia di un biglietto aereo; le maestre perplesse si sono domandate cosa volesse significare quel messaggio ed è stato in quel momento che un’intuizione sconfortante ha illuminato i loro pensieri: «Non sarà che non sanno leggere e per questo non rispondono ai messaggi e Aisha non consegna i suoi compiti?». Ecco la banale verità: i genitori di Aisha non comprendono l’italiano se lo leggono, e ne comprendono la metà se lo ascoltano! Da allora, le maestre hanno comunicato con loro attraverso dei messaggi vocali, salvando quella comprensibile metà: «Vorremmo salutare Aisha! Ci farebbe piacere vederla e sapere come sta! Non ci siamo dimenticate di voi». Quanto può dividere e allontanare una lingua che non si conosce e l’incapacità di esprimere sé stessi a parole?

«Ricordi ancora il minuscolo Abel? Salta come un grillo da una parte all’altra del salone e scatta come una lepre ogni volta che le maestre provano ad acchiapparlo per farlo sedere». È una furia incontenibile di luce: la sua pelle è scura ma non esiste al mondo bambino più luminoso di lui! Non conosce limiti la sua allegria e imporgliene alcuni è stata un’ingegnosa avventura. Per fargli comprendere la semplice regola di rimanere seduto durante l’appello mattutino, la sua maestra aveva congegnato una stramba soluzione, nata per scherzo ma rivelatasi subito efficace: era bastato uno sciocco cartoncino arancione appoggiato sulla sua sedia per richiamare l’attenzione di Abel e farlo sedere a comando.

Per lui, quel pezzo di cartone era la dimostrazione tangibile dell’amore delle sue maestre. Indiscusso protagonista dell’appello, si vestiva coi colori presi in prestito dal sole. I suoi raggi si stanno spegnendo adesso, dopo mesi rinchiusi fra le pareti di casa, e Abel ha già perso l’unico bene che avesse mai posseduto: la scuola.

«Poi c’è la tenera e dolce Giulia, ricordi di lei? Sul suo volto, una lacrima che non vuole staccarsi da quegli enormi occhi, blu come la notte, che celano un dolore impenetrabile». Giulia è triste e la sua tristezza è scoppiata dirompente durante i mesi di isolamento; una bambina che possiede ogni cosa ma a cui manca tutto, perché priva dell’elemento più importante: l’affetto dei genitori, così oppressi dal lavoro da non avere un briciolo di tempo per riuscire a mostrarle tutto il loro amore. La madre ha chiamato un giorno le maestre: «Giulia parla da sola! Crediamo abbia un amico immaginario!». La solitudine di Giulia, che aveva perso il conforto rassicurante della scuola, ha travolto i suoi genitori: non si sono mai accorti prima di quanto la loro bambina fosse sola, di quanto potesse esserle mancato, in tutto quel tempo, l’abbraccio caldo della mamma e del papà, a lei così piccola in un mondo così grande e pieno di domande.

«Poi c’è ancora lei, Gaia: ricordi la sua schiena sempre ritta e quel suo sguardo così fiero? Mai vista una ragazzina così determinata e con una fame di libri così incontenibile!». Ebbene, Gaia è di ferro e sono i suoi libri a renderla così forte, pagina dopo pagina, facendola scoprire libera. Libera di immaginare per lei un futuro diverso dal presente della sua famiglia, fatto di campi da coltivare e mucche da portare al pascolo; un presente divenuto immobile e in cui Gaia si sarebbe dissolta nei mesi di lontananza, se la sua insegnante non fosse intervenuta per richiamare all’ordine i suoi genitori: «Vostra figlia deve studiare e non lavorare nei campi! Una testa come la sua non può perdersi fra pollai e granai!».

«Cara Scuola, cosa ne sarà di Aisha, Abel, Giulia e Gaia se non riapri le tue porte? Quanti insegnanti, per un atto individuale di responsabilità, saranno ancora in grado di supplire alla tua insopportabile assenza? Spalanca le tue porte e accogli la vita, fallo in fretta, o chi è già perduto lo sarà per sempre». —

Alice D’Oro
 

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