Padre e figlio, originari di Bigliolo, sono precipitati con un aereo il 14 agosto ’69. I parenti: «Cerchiamo la verità»
Aulla. Nessun segreto ma molti misteri intorno alla vicenda di Marino Loretti e del figlio Irnerio, morti il 14 agosto 1969 (il primo aveva 52 anni, il secondo 24) precipitando con l’aereo De Havilland di proprietà nelle campagne di Sassoce Acquacetosa di Marino, non lontano da Roma. Quella tragedia fu un attentato, secondo il magistrato Vincenzo Calia, che ha condotto la terza inchiesta sul caso Enrico Mattei, aperta nel 1994 e chiusa nel 2003 dalla Procura di Pavia, dove Calia era Pm (oggi è al tribunale di Milano). La fine di Loretti padre e figlio è legata alla scomparsa dell’ex presidente dell’Eni, anche lui precipitato quando era a bordo di un velivolo, il Morane Saulnier 760, il 27 ottobre 1962 a Bascapè, nei pressi dell’aeroporto Milano-Linate. E anche lui morto, insieme al pilota che era ai comandi, Irnerio Bertuzzi, e al giornalista statunitense al seguito di Mattei, William McHale.
Marino Loretti e Irnerio erano aullesi (di Bigliolo), e da 51 anni sono sepolti nel cimitero di Caprigliola. La loro sorte è legata a uno dei tanti misteri d’Italia, relegata in secondo piano e per questo poco discussa. Da qualche tempo hanno ripreso in mano la questione Pier Luigi Trivelli e Umberto Crocetti, entrambi di Aulla, parenti in linea diretta di Edvige Fabbri, moglie di Marino e madre di Irnerio, anche lei sepolta al camposanto di Caprigliola. Trivelli e Crocetti lavorano per cercare di fare nuova luce sulla scomparsa dei Loretti. «Avremmo interesse a conoscere gli esiti dell’indagine, ma non abbiamo notizie in merito, non abbiamo notizie di un seguito del procedimento». Perché nel 2003 il sostituto procuratore Calia, nel chiudere l’inchiesta su Mattei (la conclusione a cui il pm è arrivato è che si è trattato di un attentato, ma non si conoscono mandati ed esecutori), aveva chiesto alla procura di Velletri (competente territorialmente) di aprire un fascicolo sull’incidente che costò la vita ai due aullesi residenti a Roma. Ma quella richiesta non ha avuto seguito. Calia, comunque, dovrebbe essere ad Aulla a fine settembre: Trivelli e Crocetti, che è professore al liceo cittadino, stanno organizzando un incontro pubblico per approfondire questa storia, con il convolgimento degli studenti, per non dimenticare un fatto che ha segnato una famiglia e una comunità, che non è mai stato ricordato, neppure dalle istituzioni.
Secondo le carte, Marino Loretti poteva essere un testimone-chiave sul caso Mattei, pochi mesi prima di morire, infatti, aveva scritto una lettera a Italo Mattei, fratello dell’ex presidente dell’Eni, annunciandogli che era pronto a dire cose importanti sulla tragedia di Bascapè del 1962. Il 52enne pilota era un dipendente dell’azienda petrolifera, era uno dei motoristi che dovevano curare proprio l’aereo sul quale si spostava Mattei. Ma nella primavera del 1962 venne trasferito alla sede dell’Eni in Marocco: gli erano state attribuite presunte responsabilità (a quanto pare mai dimostrate) su un guasto proprio al velivolo del presidente. Loretti tornò a lavorare in Italia solo dopo la morte di Mattei. Qualche anno dopo aprì una società di trasporti aerei, acquistando il De Havilland dalla Snam. Il figlio Irnerio stava imparando a guidare un velivolo quando ha trovato la morte. Irnerio, come il nome del pilota morto insieme a Mattei, Bertuzzi, amico fraterno di Marino Loretti, entrambi pluridecorati durante la guerra. Tante le cose che si intrecciano. Per il pm Calia, come il Morane Saulnier 760 di Mattei era stato sabotato con una piccola carica di esplosivo, anche il De Havilland dei Loretti aveva una quantità eccessiva di acqua nel serbatoio. Insomma, due attentati. Di cui si conoscono le vittime ma non chi li ordinò e li eseguì.
Marino e Irnerio Loretti, tra l’altro, quel 14 agosto di 51 anni fa dovevano solo fare un giro di prova in volo, per poi “parcheggiare” il mezzo in un hangar. E dopo erano attesi a Bigliolo di Aulla, dove solitamente passavano gli ultimi quindici giorni di agosto. Arrivarono in Lunigiana dentro due bare. E lì sono rimasti, in una cappella al cimitero. «Noi non vogliamo che questa memoria si perde, e cerchiamo la verità», dice Trivelli. —