I miei trucchetti per il banco di beneficenza e la delusione per non avere vinto il premio voluto. Il voto e la promessa se il desiderio di Alberto fosse stato esaudito
Quel sabato sera a cena mio padre ci disse che il giorno dopo saremmo andati al santuario di Prascondù, perché il giorno dopo, la domenica del 27 agosto del ’61 si celebrava la festa annuale.
Al mattino verso le otto eravamo già tutti in piedi, meno Febo, che restava accucciato con il muso triste e silenzioso avendo capito che gli toccava passare una giornata in solitudine.
Mamma Albina, che si era alzata molto prima di noi, aveva già preparato una frittata e dei panini con salame e formaggio, della frutta e del cioccolato e una bottiglia di vino per il papà.
Tovaglia e tovaglioli, piatti e bicchieri partivano con noi e con la nostra Topolino, che trionfante lasciava Pont per avventurarsi verso Sparone, Ribordone ed arrivare a Prascondù, in quel santuario, dove c’era una Madonna con la faccia nera, ma non perché fosse arrabbiata; è che tanti anni prima aveva fatto un miracolo particolare.
La Topolino era venuta a stare con noi nel ’48 quando ero nato io, abbandonando l’amata moto Guzzi Pl 250, perché adesso che eravamo in cinque sarebbe stato un po’ difficile starci tutti su quella moto. Era stata comprata a rate, nell’agosto del ’38, pagando subito in contanti 1.580 lire e aggiungendo 12 cambiali mensili da 285 lire, dal 15 agosto 1938 al 15 luglio 1939, per un totale di ben 5.000 lire. Quanti ricordi di quella moto Guzzi raccontava mio padre, come quando nel ’40, a un passaggio a livello del treno nei pressi di San Maurizio Canavese, con la sua consorte e Giovanni, il primo pargoletto, una delle sbarre piombò improvvisamente sulle loro teste. Per fortuna nessun treno passava in quel momento, perché quella sbarra anarchica aveva deciso di scendere senza alcun motivo, fregandosene di tutto il resto, moto Guzzi e famiglia compresa. Ruzzolarono tutti e tre a terra in mezzo alle rotaie e alzandosi pieni di lividi e con la moto tutta graffiata si cominciava già a pensare ad una automobile, anche se costava ben di più di una moto.
Il sole e tanta gente ci aspettavano a Prascondù, mentre la Topolino riusciva a trovare faticosamente un posteggio nel prato ormai zeppo di auto, moto, vespe, biciclette e furgoncini e c’erano anche dei cavalli, perché c’era ancora qualcuno che sceglieva di arrivare come facevano i nostri antenati.
Alle dieci iniziava il tradizionale incanto degli oggetti donati dai partecipanti e alle undici precise si doveva entrare in chiesa per la messa, stretti come delle acciughe e come se non bastasse il caldo, la gente continuava ad accendere candele fino a riempire tutti i candelieri presenti.
Una vecchietta accanto a noi, con un colpo di tosse che sapeva tanto di una precisa soffiata, spense due candele e immediatamente le riaccese con altre promesse che solo lei sapeva, prima che arrivassero altre folate di vento, starnuti o colpi di tosse estivi.
Verso mezzogiorno, in attesa della comunione, il mio stomaco reclamava dalla fame che aveva perché non veniva riempito da un bel po’ di tempo se non con l’acqua del rubinetto delle fontane e quando si doveva fare la comunione bisognava restare a digiuno dalla sera prima e la prova era alquanto dura. Verso la mezza il rito in chiesa finalmente era concluso e iniziava la processione con la banda musicale e con un’altra ora di preghiere e digiuno.
Finite tutte le cose sacre obbligatorie si andava esausti a mangiare in uno dei tanti tavoli all’aperto e tra l’allegria e la confusione, vinse il silenzio della fame.
Nel pomeriggio al banco di beneficenza c’era la coda e con quei soldini che mi aveva dato la mia costruttrice potevo acquistare tre biglietti sperando di vincere quella bella chitarra in palio, che mi piaceva un sacco. Purtroppo finirono nelle mie mani solo un quaderno, un sapone di Marsiglia e un vaso di terracotta, mentre lei l’ambita chitarra, rimaneva appesa a guardarmi dall’alto in basso.
Ritornai dopo un po’ con altri soldini, che stavolta arrivavano dal mio creatore con i baffi, al quale non avevo detto che la sua dolce consorte aveva già fatto la stessa cosa, ma lui non me lo aveva chiesto. Mentre aspettavo il mio turno, la chitarra dei miei sogni era sempre là che mi guardava con interesse perché capiva il mio sincero desiderio nei suoi confronti ed ero certo che avrebbe fatto di tutto per venirmi incontro, ma purtroppo le chitarre in questo mondo non hanno molto potere decisionale.
Vinsi nuovamente un altro sapone di Marsiglia, delle mollette per stendere il bucato e un bicchiere di vetro e l’unica persona felice di quelle vincite era la mia mamma, alla quale consegnai il malloppo, che con quel sapone mi avrebbe lavato un sacco di roba, ma non mi avrebbe mai comprato una chitarra.
Passò in fretta quel pomeriggio, tra giochi con compagni improvvisati e una passeggiata verso quel pilone votivo dove centinaia di anni prima un pastorello muto del paese, un tale Giovannino Berrardi, aveva riacquistato la parola dopo una promessa fatta ad una donna bianca apparsagli con un bambino in braccio, bianco anche lui, ma perché forse non avevano ancora preso tanto sole. Questa signora, che era la Madonna, gli disse che per ritornare a parlare avrebbe dovuto andare a Loreto, che non era come andare a Pont Canavese, ma molto più distante, nella regione delle Marche.
I miei genitori mi avevano raccontato che in quei giorni lo avevano visto girovagare nella zona del santuario di Oropa nel biellese, che non è proprio nelle Marche, ma quando non si parla è dura farsi spiegare il percorso dalla gente, fatto sta che riacquistò la voce.
Davanti a quel pilone feci anche io un voto perché in cambio di quella meravigliosa chitarra non avrei mangiato caramelle per un anno e in più non avrei detto bugie per sei mesi.
Quando ritornai al banco di beneficenza per altri tre biglietti, frutto della bontà di Giovanni, il fratello più grande, la chitarra però non c’era più e ci stetti davvero male.
Allora mi venne un forte dubbio perché quando si facevano delle promesse e tanto più ad una Madonna, prima probabilmente si dovevano eseguire per ricevere l’ambito premio e allora avrei dovuto aspettare la festa del prossimo anno, sempre che in palio ci fosse stata un’altra chitarra.
Bisognava pensarci bene e senza fretta perché le caramelle erano un bene fondamentale per un ragazzo e le bugie non erano da meno, mentre intanto quel mio sogno di strimpellare una chitarra finiva in naftalina. —
Alberto Serena