“Una luce di qualità forsennata, indifferente, orizzonti troncati o spalancati o improvvisamente deserti; e continui vortici di nebbia: invadente e salata, sa di mare”, così arrivava ad Alberto Arbasino la prima folata di San Francisco, raggiunta e descritta in America amore dopo lunghi tortuosi pellegrinaggi statunitensi. Passa qualche decennio, la nebbia non si dirada, l’atmosfera da porto di mare resta più o meno intatta, i grattacieli sono ancora lì a far da guardia al Golden Gate. In compenso, tra le villette colorate e i portici vittoriani, anzi, intorno ad essi, cioè subito fuori dal compatto centro urbano della città sul Pacifico, è spuntato in poco più di vent’anni un sottobosco fittissimo di aziende digitali, nuovi centri urbani, prosaici neighborhood in palpitante ascesa. È la Valle: che poi altro non è che il modo intenzionalmente colloquiale con cui Michele Masneri chiama la Silicon Valley, ecosistema peculiare della California del nostro secolo, grande febbricitante novità da raccontare, nella quale Masneri, giornalista e scrittore, si è immerso a più riprese in viaggi e giretti e scampagnate, scrivendone su giornali e riviste. Adesso quei racconti, opportunamente riscritti, vengono pubblicati da Adelphi in Steve Jobs non abita più qui. Un address book di cose nordcaliforniane (con brevi incursioni nella Southern California) che evita le banali vedute d’insieme, da cartolina, e si arrende felicemente ai dettagli, mille dettagli, forse assai più rivelatori man mano che Masneri si avventura nella fauna degli arrembanti hipster che vengono a depositare le proprie ambizioni qui, che cascano gravitazionalmente in California venendo dai campi oscuri del resto della repubblica, tutti o quasi armati dei libri di Ayn Rand, stella polare, col suo credo individualista e spietato, dei libertari di ogni parte del mondo.

Ecco la prima frizione, la prima di tante discrasie nordcaliforniane: che c’entra Rand, la ferocissima anticomunista Rand del secolo scorso, con questi giovani fichetti e fedelissimi elettori democratici? Non si era nella zona più liberal d’America, tra la Castro dell’emancipazione omosessuale e la Berkeley delle eterne proteste studentesche, tra le senatrici Feinstein e Boxer e Kamala Harris e i risultati clamorosi delle presidenziali del 2016, in cui la California, in controtendenza con il resto degli States, ha attribuito ai democratici persino più voti di quanti ne aveva già generosamente riversati su Obama quattro anni prima? Insomma, non ci trovavamo in una roccaforte progressista, questa in cui Masneri si muove come un pesciolino da acquario? Sì, ma anche no. Come scriveva James Wilson nel mitico giornale neocon Commentary componendo nel lontanissimo, archeologico 1967, un breve profilo sociologico della California, “la struttura sociale non ha influito minimamente sull’orientamento totalmente individualista delle persone. La gente, qui, non ha identità al di fuori della propria identità personale”. È un bel problema, far quadrare questo spirito eternamente americano e in fondo ancora erede del far west, con l’anima dem e progressista della mecca scintillante della rivoluzione digitale di questi anni.

Masneri comincia proprio dalle elezioni del 2016, ovvero dal disturbo post traumatico che colpisce gli abitanti di San Francisco al loro doloroso risveglio, il 9 novembre, nella Right Nation trumpiana. In quel momento l’autore risiede, a mo’ di esperimento sociologico, in una specie di comune nella zona del Civic Center di San Francisco: un co-living che lui ribattezza la “Casa del Grande Fratello Startupparo”, circondato com’è dai millennial avidi di successo ma poveri di risorse che si devono rassegnare ad accamparsi in quelli che sono poco più che dei loculi. Un’esperienza quasi universale, qui. Tanto più che in questa parte d’America “la casa è un incubo e un’ossessione”, e infatti il gruppo Facebook “Bay Area apartments and sharing” è battutissimo, mentre si rincorrono le leggende di giovani urban professional che dormono in automobile, nel vano scala, nei garage (effetti perversi della Prop. 13, la legge del 1978 che stabiliva che i proprietari di casa non potessero essere tassati per più dell’1 per cento del valore di mercato dei loro immobili, valore aggiornato però solo nel caso di una possibile vendita: risultato, mercato immobiliare da allora completamente bloccato, e vantaggi solo per i molto, molto ricchi). Masneri in quel momento rincorre Peter Thiel, fondatore di PayPal, gay repubblicano tra i pochissimi della Silicon Valley ad avere appoggiato Trump; non lo troverà, in compenso si imbuca a party, feste, cene, eventi (verbo-chiave del libro, imbucarsi, corrispondente a uno stato d’animo visceralmente curioso e a un abbandonarsi, negli incontri, a una sorta di destino un po’ karmico). Si ispira, Masneri, all’artefatto randagismo del grande Arbasino, quando scriveva ad esempio nei Ritratti italiani: “d’inverno, a Lisbona, un architetto e designer fastoso e vispo m’invitò a pranzo”, e nientemeno l’ospite d’onore della cena era un certo Umberto di Savoia. Ma buttato lì così, senza enfasi. E senza enfasi Masneri parla con Bret Easton Ellis e con Jonathan Franzen, con l’imprenditore del tech David Kelley e con Chris Lehane, a capo delle PR di AirBnb.  

In fondo, quella di Masneri è ancora la nebbiosa Costa dei Barbari di Howard Hawks, cioè un luogo che tiene insieme più generi, che si rivolta nella meravigliosa contraddizione di essere al contempo avanguardia globale (come definire altrimenti la terra di Apple, Google, Facebook, eccetera?) e un posto caotico e ribaldo, allegro e feroce, in cui si lavora in co-working angusti e umidicci e si costruiscono grandi aziende nei garage (Steve Jobs abitava effettivamente lì, all’inizio della sua carriera). Una terra dove si fanno grandi cose senza grande retorica, dove il minimal è la cifra, “vogliamo creare un nuovo campus Apple, insomma, qualcosa di carino”, come disse proprio Steve Jobs davanti al consiglio comunale di Cupertino nel 2006, quando ancora l’iPhone non esisteva e lui non aveva la sconfinata popolarità globale che venne di lì a poco. D’altra parte, commenta il bresciano Masneri, qui “i soffitti sono bassi, ai limiti dell’agibilità, tutto è minuscolo, e suscita serie riflessioni su cosa spinga questi magnati a fare fantastilioni per poi abitare come in un suburbio brianzolo”.

 Da Cupertino al Mission District di San Francisco, dove Masneri scappa a gambe levate venendo dalla comune di cui si diceva prima, stavolta alla ricerca di un posto più adeguato alla propria comfort zone, e come compatirlo: “non ho più l’età, era ovvio, per questo Erasmus da quarantenne – eppure l’idea era semplice, lasciare per un anno Roma e l’Italia decotta, le buche e la depressione economica e morale, e venire nel posto in cui sono tutti giovani, e felici, e progettano il futuro. Però la comune è troppo, con in più l’incubo trumpiano. Urgono l’upgrade e la fuga”. A Mission abita anche Mark Zuckerberg, o meglio Zuck2020 come doveva chiamarsi la possibile corsa presidenziale antitrumpiana del fondatore di Facebook: prima del caso Cambridge Analytica, prima che i vicini di casa liberal progressisti si accorgessero del paradosso di avere un miliardario manipolatore alla testa dei democratici e lo ripudiassero al grido di “via i tecnofascisti da Mission!”.

 Le storie si susseguono, il titolo è scorsesiano: del film del 1974 Alice non abita più qui Masneri riprende lo sguardo ironico (si pensi alla battuta “How are we supposed to have a meaningful family relationship if he's always on the verge of killing you?”). Ma anche il senso della seconda chance americana, l’idealismo dell’eterna ripartenza e palingenesi, dello spostarsi fisicamente come illusione di cambiare anche la propria anima, di rinnovarsi e purificarsi. E tanto più è disordinata e persino scalcinata, questa ansia centrifuga, tanto più è convincente e autentica. Tanto più, soprattutto, è gustosa da leggere, da esplorare, per farcisi ancora sedurre e respingere. E ancora sedurre.

 Steve Jobs non abita più qui di Michele Masneri, Adelphi (253 pagine, 19 euro)