Il personaggio: Margherita Cassano. Lucana, 64 anni, ha studiato e si è formata alla scuola fiorentina
FIRENZE. «Penso che sia fondamentale fornire risposte tempestive perché il tempo ha una valenza centrale nella vita delle persone. Bisogna avere un atteggiamento di apertura alle ragioni degli altri e di rifiuto per le tesi precostituite». Dal 15 luglio, Margherita Cassano è presidente aggiunta della Corte di Cassazione. La prima donna presidente aggiunta della Corte di Cassazione. Scuola fiorentina - dalla facoltà di legge alla procura - è (stata) presidente della Corte d’appello di Firenze. Una carriera in magistratura «per caso». Giurisprudenza, invece che lettere antiche. Eppure eccola qua.
Dottoressa Cassano, come si arriva alla sua elezione a presidente aggiunta della Corte di Cassazione?
«Si è arrivati alla mia designazione nell’ambito di una procedura regolata dalle disposizioni di legge primarie e secondarie e dalle circolari del Consiglio superiore della magistratura. Eravamo 12 concorrenti: siamo stati sottoposti ad audizione e quindi è avvenuta la designazione all’unanimità per il primo presidente Pietro Curzio e per me. Questa investitura all’unanimità è un fatto che ci onora e che ci grava ancor più di un senso di responsabilità perché siamo consapevoli del dovere profondo che abbiamo di osservare il nostro impegno professionale».
Era l’unica donna ad aspirare a questo incarico?
«No: abbiamo presentato domanda in tre, grazie al fatto che finalmente ci sono anche le condizioni anagrafiche affinché le donne possano raggiungere questi posti di responsabilità in magistratura. Non possiamo dimenticare, infatti, che soltanto nel 1963 il concorso in magistratura è stato aperto alle donne e per la prima volta soltanto nel 1965 il concorso è stato sostenuto dalle donne.
Il possesso dei titoli necessari per concorrere a questo posto sicuramente richiede una rilevante anzianità di servizio (oltre che specifiche attitudini) che solo di recente le donne possono aver acquisito. Non posso non ricordare colleghe bravissime, con le quali ho avuto il piacere di collaborare in Cassazione, che purtroppo non hanno avuto l’opportunità che oggi è capitata a me. Per esempio Gabriella Luccioli, presidente della prima sezione civile Cassazione, Grazia Corradini, consigliera in Cassazione, presidente della Corte d’appello di Cagliari. Oggi, ci sono diverse donne a capo di Corti d’appello in Italia. Le abbiamo a Milano, Trento, Venezia, Genova, Firenze, L’aquila, Campobasso, Salerno, Potenza, Caltanesetta. Questa rivoluzione silenziosa è avvenuta fra il 2015 e il 2016, anche grazie alle nuove disposizioni di legge, compresa quella che ha anticipato il pensionamento dei magistrati da 75 a 70 anni, che pure di contro ci ha fatto perdere maestri in Cassazione».
Ora che è lei presidente aggiunta di Cassazione, quale segno vorrebbe lasciare nel suo mandato?
«Non presumo di lasciare segni, ognuno deve essere consapevole dei propri limiti. Mi auguro di poter continuare il metodo di lavoro che mi ha arricchito in come presidente della Corte di appello di Firenze e che ha contraddistinto la mia attività: quello della collaborazione con tutti gli altri interlocutori. Un servizio si può rendere in maniera utile ed efficace se si parte dal presupposto che per renderlo dobbiamo collaborare tutti insieme, tutti quelli chiamati a concorrere all’amministrazione delle giustizia. A partire dagli avvocati, i nostri interlocutori fondamentali, il personale amministrativo, senza perdere di vista la realtà esterna che ha bisogno di risposte da noi».
Spesso, però, le risposte della giustizia ai cittadini non sono quelle che si aspettano. O non nei tempi che si aspettano.
«Penso che in tutte le realtà giudiziarie sia fondamentale fornire risposte tempestive. Il tempo ha una valenza centrale nella vita delle persone. Dobbiamo anche essere consapevoli che il nostro dovere fondamentale di giudici è ascoltare gli altri; avere un atteggiamento di umiltà e di apertura alle ragioni degli altri; il rifiuto di tesi precostituite e la capacità del dubbio metodico perché le nostre decisioni incidono sulla vita delle persone. Perciò dobbiamo muoverci nel rispetto di quello che ci prescrivono la costituzione e le leggi nel pronunciare le sentenze».
Quando ha deciso di diventare una magistrata?
«Tutto è successo abbastanza casualmente. Io ho scelto giurisprudenza per ripiego: volevo studiare lettere antiche, filologia semitica per la precisione. Poi per ragionamento, pensando alle possibilità professionali, ho ripiegato su giurisprudenza. Invece ho incontrato professori bravissimi, a cominciare dal professor Collura che è stato anche docente dell’attuale ministro della giustizia, che ci ha fatto appassionare allo studio del diritto, ci ha aperto nuovi orizzonti e così ho continuato a frequentare giurisprudenza a Firenze».
Ci sono inchieste di cui va fiera, anche per motivi etici, non solo giuridici?
«Ce ne sono state tante. Da pm citerei il processo al traffico internazionale di droga, che dalla Toscana finiva degli Usa, nelle scarpe. Il processo era a carico di Tommaso Spadaro, don Masino (deceduto), affiliato al clan mafioso dei Greco. Ero all’inizio della mia carriera: con la collega Della Monica conducemmo rogatorie internazionali. Poi a distanza di anni, ci fu un’altra inchiesta sul narco-traffico che portò al sequestro di una tonnellata di cocaina per la quale andai a fare rogatoria in Colombia: quella fu un’esperienza a parte molto pericolosa, istruttiva umanamente. Mi ha fatto conoscere (nell’epoca della “Mani pulite” colombiana) magistrati bravissimi, impegnati, che sacrificavano quotidianamente la loro vita, ma lavoravano con il sorriso sulle labbra».
Mai avuto paura?
«Sono stata consapevole dei rischi che correvo in alcune situazioni. L’importante è non farsi condizionare dai sentimenti e tenere sotto controllo le emozioni. La paura c’è, va tenuta sotto controllo e mantenuto sangue freddo. È un po’ insito nel nostro lavoro. Si impara a tenere sotto controllo le nostre emozioni».
E ha incontrato difficoltà a diventare magistrata? O a esercitare la sua professione?
«No. Ho sempre incontrato ambienti disponibili e accoglienti. All’inizio della mia carriera e della mia attività professionale, siccome ero giovane, ho però trovato persone che mi scambiavano per altro: magari per una segretaria. Non capivano che ero io il magistrato. Ma all’epoca era inusuale trovare una magistrata donna, ma era l’81. Tuttavia l’ambiente della magistratura è molto evoluto, non ci sono state molte difficoltà. Anzi direi che il mondo della magistratura anche rispetto ad altre realtà professionali è piuttosto avanti, sia nella consapevolezza sia nell’adozione di tutte le misure organizzative necessarie per consentire a una donna di conciliare i suoi impegni familiari con quelli lavorativi. Comparando la nostra condizione con quella di donne libere professioniste (ad esempio avvocate) penso che la nostra categoria è molto privilegiata e avvantaggiata rispetto alla loro». —
