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Pd-M5s, tutti i nodi da sciogliere entro martedì. Tra i dem il fronte pro Conte si allarga all’ala non renziana, ma “squadra nuova”

La condizione più difficile, Luigi Di Maio l’ha messa sul tavolo all’ora dell’aperitivo del primo giorno ufficiale di trattative: i 5 stelle staranno nel governo giallorosso solo se Giuseppe Conte sarà premier. L’accelerazione è arrivata dopo che Beppe Grillo ha pubblicato il post in sostegno del presidente del Consiglio: il faccia a faccia tra il leader M5s e Nicola Zingaretti, prima smentito, è stato organizzato per cena a casa del sottosegretario M5s Vincenzo Spadafora. E’ lì che il grillino ha scoperto la carta più importante e il segretario ha incassato. La nota finale del Pd recita: “Serve un governo di discontinuità“, come Zingaretti ripete da giorni. Ma non si fa mai il nome dell’ex premier. I suoi si affannano a ripetere che “il no a Conte è chiaro”, ma uno spazio per trattare, a patto che i 5 stelle si dimostrino pronti a cambiare i volti che formeranno l’esecutivo, rimane. Nessuno vuole esporsi per non compromettere il tavolo, ma fonti qualificate del Pd a ilfattoquotidiano.it raccontano che, anche tra i non renziani dentro il Partito democratico, si sta allargando il fronte a favore del premier uscente.

C’è una truppa, che guarda ad esempio ad Andrea Orlando e Dario Franceschini, che chiede almeno di non escludere a priori l’opzione. Raccontano, dal fronte zingarettiano, che il segretario abbia chiesto l’appoggio di Renzi, con una telefonata preventiva, per il veto su Conte e abbia strappato un appoggio in nome dell’unità. Ma per l’ex premier, il nome non è mai stato un problema. E soprattutto, rimane una parte consistente dei democratici, che comprende ex ministri dei governi Renzi e Gentiloni e pure intellettuali di peso, per i quali l’ex presidente del Consiglio rimane l’opzione migliore per un governo politico e soprattutto in chiave anti-Salvini. Il fatto è che, il “90 per cento dei parlamentari Pd”, raccontano sempre le fonti, “è a favore dell’accordo” e la condizione che stiano fuori “i membri di governi precedenti (Renzi e Gentiloni)” è sufficiente per far iniziare la partita. Una partita che, almeno sul fronte dei temi, sembra fattibile. Ieri pomeriggio gli emissari di Pd e M5s si sono seduti al tavolo per parlare di programma e le cose, quasi sorprendentemente, sono andate bene. I grillini hanno ottenuto il sì al taglio dei parlamentari rapido, i democratici hanno chiesto che chiudessero il fronte con la Lega. “Le distanze non sono incolmabili”, ha siglato la giornata il vicesegretario Pd Andrea Orlando, frontman di Zingaretti e soprattutto uomo di cerniera tra le correnti, e pure con le componenti minori. Non da ultima, quella di Orfini e gli altri ex Ds che in queste ore hanno speso una parola a favore di Conte. I segnali sono tanti e, anche se il tempo corre, va sfruttata ogni ora perché ogni passo, in una direzione o nell’altra, venga digerito dalle rispettive basi.

Conte bis. Non lo vogliono solo i 5 stelle – E’ un fatto ormai che Conte abbia aperto una breccia oltre il suo fronte. La differenza l’ha fatta, tra le tante cose, il discorso nell’Aula del Senato. Quando Conte ha parlato davanti ai parlamentari e criticato in modo puntuale e concreto il ministro dell’Interno, facendo leva sulla Costituzione e il rispetto della legge, ha conquistato non solo i grillini. In tanti dentro il Partito democratico e a sinistra, hanno visto in lui la figura giusta a cui affidarsi in questo momento. Lo ha detto Piero Grasso in Senato, ma pure il senatore Pd Tommaso Cerno a ilfatto.it. Lo hanno ripetuto per tutto il giorno ieri vari esponenti dem, appartenenti non solo alla corrente renziana che già sul punto si era detta disponibile ad accettare. “In questo momento”, raccontano, “l’emergenza è arginare Salvini. E lui ha dimostrato che può farlo”. Un dettaglio poi, non è passato inosservato alla corrente più cattolica: la reprimenda di Conte sull’uso dei simboli religiosi accostati ai comizi, sostenuta dalla difesa della laicità. Ecco, proprio quel passaggio, ha conquistato anche i più credenti. Inoltre, si fa notare dentro al Nazareno, “serve un nome politico” per contrastare la macchina del Carroccio: “Non possiamo andare a pescare dai soliti elenchi, dalla Cartabia a Giovannini. Serve qualcuno che possa reggere il gioco”. Per i 5 stelle è già più facile. E’ vero, ci sono da sedare alcune concorrenze interne tra leader (da Di Maio a Di Battista), ma il fatto che Beppe Grillo abbia preso posizione così apertamente ha risolto la metà dei problemi. Lo schieramento che vorrebbe riportare al voto, è tentato dalle sirene del Carroccio che propongono addirittura Di Maio premier, salvo poi ricredersi pensando al “tradimento” di sole tre settimane fa. “E’ il nostro nome”, replicano dai 5 stelle. “E’ inutile girarci intorno, perché in questo momento e con così poco tempo è l’unico in grado di mettere tutti d’accordo”.

La squadra: il Pd “chiederà che stiano fuori i membri dei governi precedenti” – Una volta scelto il premier e trovata l’intesa, si passerà ad affrontare il nodo della squadra. Che verrà in qualche modo di conseguenza. Se infatti Zingaretti potrebbe superare l’ostacolo Conte, questo non significa che non insisterà sulla “discontinuità” per quanto riguarda i membri dell’esecutivo giallorosso. La regola non scritta che si vuole far passare ai 5 stelle, e su cui il segretario ha trovato un’intesa con Renzi, è che “del nuovo esecutivo non dovranno fare parte ministri dei governi Renzi, Gentiloni e Letta e ovviamente di quello Conte”, spiega la fonte Pd della corrente di sinistra che chiede di rimanere anonima per rispettare la richiesta di silenzio del segretario. L’eccezione alla regola riguarderebbe però “i capi dei partiti e i capi corrente”: “Ecco perché Zingaretti ha aperto alla presenza di Di Maio nell’esecutivo”, spiegano. In generale però, le trattative, anche sugli eventuali nomi, saranno favorite dal fatto che “gran parte del nostro gruppo parlamentare è favorevole a fare un governo con i 5 stelle. Soprattutto in chiave anti Salvini”. La convinzione è che il leghista “abbia in mente un colpo di Stato”, e se si prende “i due terzi del Parlamento farà il presidenzialismo“. All’interno, “ci sono sensibilità diverse”, ma nessuno nega che la prospettiva che ci si immagina è “un governo di lunga durata”. Una parte punta a fare la manovra, tagliare i parlamentari e fare una legge elettorale proporzionale, per poi andare al voto tra un anno circa. “Chiaro però che un governo simile perché dovrebbe cadere a orologeria dopo un anno?”. E’ per questo che l’altra parte, quella maggioritaria, punta a un governo lungo che gli zingarettiani hanno chiamato di legislatura. L’obiettivo principale è l’elezione del presidente della Repubblica“. “L’ostacolo che, sia i 5 stelle che il Pd, temono è il fatto che i loro elettorati sono stati educati a odiarsi. Ormai da anni”. E lavorano tutti sullo stesso terreno. “Nel 2018 la Lega non era un nemico per nessuno”, chiude. “Oggi il nemico è solo uno, Salvini”.

I temi: il taglio dei parlamentari “veloce” e le convergenze sul programma – Si è rapidamente finiti a parlare di persone, perché sul programma le difficoltà sembrano essere molto poche. Il primo passo al tavolo ieri è stato fatto: il Pd ha accettato un “iter veloce” della riforma che riduce il numero di eletti in Parlamento. E ha chiesto che a lato si riveda la legge elettorale in chiave proporzionale, cosa che al M5s farebbe molto comodo. Questo tema, che fino a poco dopo le consultazioni al Colle, sembrava avrebbe spaccato le parti, sembra già essere quasi del tutto sciolto. L’accordo “di legislatura” e quindi fatto per durare, potrà partire dall’intervento su cui i 5 stelle puntano tutto. Entro martedì, quando il Colle darà il via a nuove consultazioni, le due parti dovranno limare l’intesa sugli altri punti, ma finora non sono emerse distanze incolmabili. Ambiente, temi sociali, perfino la riforma della Rai e il conflitto di interessi: sono tutti impegni a cui il Pd non può permettersi di dire no senza perdere la faccia. E soprattutto, se non si ha un contratto scritto, poi le distanze si possono limare nel corso della legislatura e parlarne seduti al tavolo. Prima però bisogna trovare un accordo su chi sarà il premier a guidare il gioco. E senza quel nome, le urne continuano a essere l’unico orizzonte possibile.

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