«Mi sono imbattuta in un figlio di Dio, camminava lungo la strada. Gli ho domandato dove stesse andando e mi ha risposto: “Vado alla fattoria di Yasgur, vado a unirmi a una band rock’n’roll. Pianterò una tenda nei campi per tentare di liberare la mia anima”». Così Joni Mitchell canta Woodstock, il celeberrimo festival del 1969. Lei che a Woodstock in realtà non è mai stata. Eppure chi c’era ritiene sia stata in grado di coglierne lo spirito e l’atmosfera più di chiunque altro.

Mentre a Bethel (New York) si svolge il più grande evento musicale di tutti i tempi, la cantautrice canadese vede le riprese dalla sua camera d’albergo. Avrebbe dovuto suonarci, ma il suo manager dell’epoca glielo vieta. La tv ha un discreto potere anche negli anni ‘60 e David Geffen ritiene più utile la di lei presenza al Dick Cavett Show. Qualsiasi ritardo, dovuto alla partecipazione al festival, le avrebbe fatto perdere l’occasione della vita. Quello che Geffen non sa, è che la Mitchell, così facendo, ha mancato l’unica esperienza davvero irripetibile della sua carriera. In trasmissione la sente raccontare dai Jefferson Airplane, da David Crosby e Stephen Stills, che si presenta allo show con i jeans ancora sporchi di fango. Loro si sono esibiti a Woodstock, sotto la pioggia, e sono riusciti a tornare in città in tempo, grazie a un passaggio in elicottero.

Se anche voi, come Joni, a Woodstock non c’eravate, ma volete almeno provare a immaginare come sarebbe stato partecipare, chiudete gli occhi e fate partire la nostra selezione dei quattro giorni del festival.

«Going Up The Country» (Canned Heat)

«Questo è lo spettacolo più oltraggioso che abbia mai visto», dice sul palco Alan Wilson, voce e chitarra dei Canned Heat, «vorrei soltanto una cosa: poter pisciare, ma qui dicono che non c’è modo». Eh, già. Del resto, chi si aspettava che nella cittadina rurale di Bethel sarebbero arrivate quasi mezzo milione di persone (gli organizzatori, stando larghi, ne avevano stimati 50mila)? Invece una fiumana di gente, perlopiù strafatta - questa la testimonianza dei pochi che non lo erano - si riversa per le strade, intasando in breve tempo ogni via d’accesso (e d’uscita) al luogo. Tutti girano nudi, si lavano come possono nello stagno Filippini e, non essendoci bagni a tiro, per l’appunto, fanno i loro bisogni un po’ dove capita. Ad ogni modo, questo pezzo bucolico, con l’inconfondibile giro di flauto, diventa uno degli inni di Woodstock.

«White Rabbit» (Jefferson Airplane)

Fu Grace Slick, voce solenne dei Jefferson Airplane, a scrivere questa Alice nel Paese delle Meraviglie in salsa rock psichedelica. «Un giorno abbiamo preso un acido e io ho messo su Sketches of Spain di Miles Davis», ha raccontato Grace, «Amavo quel disco, lo ascoltavo in continuazione, soprattutto il Concierto de Aranjuez, era ipnotico. Ha perforato la mia testa e ne è uscito fuori schizzando in vari modi quando ho scritto White Rabbit.» Altrettanto ipnotico è l’incedere di questa marcia allucinogena, che chiude con un reiterato e perentorio “Nutri la tua mente!”. Una canzone che all’epoca la Slick indirizza non ai suoi coetanei, ma ai genitori: «Ci hanno letto tutte queste storie in cui, prendendo sostanze chimiche, si vivono grandi avventure. Alice nel Paese delle Meraviglie è sfacciato: lei è talmente “fuori” che nemmeno sta nelle stanze e c’è un bruco seduto su un fungo allucinogeno che fuma oppio. Nel Mago di Oz, i protagonisti finiscono in un campo di papaveri da oppio e al risveglio vedono questa Città di Smeraldo. Che dire poi di Peter Pan? Cospargendosi il capo con polvere bianca di cocaina, si può volare.»

«With A Little Help From My Friends» (Joe Cocker)

L’interpretazione che Joe Cocker fa di questo classico dei Fab Four è sicuramente la più intensa. Sorprende gli stessi Beatles, che gli mandano addirittura un telegramma per complimentarsi. Sul palco di Woodstock, Joe, appena 25enne, posseduto da un qualche demone musicale, ne restituisce una versione ancora più energica e ispirata, usando tutto il fiato che ha in corpo. Esegue in 3/4 quello che, nella partitura originale, era un valzer in 4/4 e la sua straordinaria esibizione resta scolpita per sempre nella storia. Quando Cocker muore (2014), proprio a proposito di questa cover, Paul McCartney dichiara: «Era semplicemente strabiliante, ha trasformato la canzone in un inno soul e gli sarò grato tutta la vita per averlo fatto.»

«Purple Haze» (Jimi Hendrix)

Hendrix stesso raccontò di aver fatto un sogno in cui camminava in fondo al mare. Avvolto da una foschia violacea, non era in grado di vedere nulla. L’esperienza fu traumatica. Raccontò di essersi sentito perso, ma che poi lo salvò la sua fede in Gesù. Nella prima stesura c’era un “Purple haze, Jesus saves”, ma poi fu tolto. Per aprire il pezzo, Hendrix usò l’intervallo tritono (nel medioevo era definito “diabulus in musica”), solitamente evitato nelle composizioni, perché considerato uno dei più dissonanti. Nel testo è rimasta una delle frasi più fraintese di sempre: “scuse me, while I kiss the sky” venne scambiato per “scuse me, while I kiss this guy”. Lui stesso ci scherzò su e in alcuni live cambiò volutamente il verso, indicando un membro della band. All’esecuzione di Woodstock segue un assolo di chitarra lunghissimo in cui Jimi dà prova di tutta la sua grandezza.

«Kozmic Blues» (Janis Joplin)

Una canzone con questo titolo non poteva che essere un inno al pessimismo. “Significa semplicemente che non importa ciò che fai, finirai sbattuto a terra comunque”, ha spiegato la Joplin. Si tratta di una delle poche canzoni scritte da lei: “Riesco a comporre musica soltanto nei momenti in cui sono molto emotiva e particolarmente giù.” Sul palco, come Joe Cocker, anche Janis entrava spesso in una sorta di trance, perdendosi completamente nel pezzo che stava interpretando. E, in questo caso, la canzone era talmente triste e deprimente, che scelse di intitolarla con la K - invece che con la C - per riderci un po’ su e allentare la tensione.

«The Weight» (The Band)

Ebbene sì, dal palco di Woodstock passò anche la leggendaria Band. Robbie Robertson, il chitarrista, ha affermato che The Weight è ispirata al surrealismo di Buñuel. Rimase affascinato soprattutto dai personaggi dei suoi film. Rolling Stone ha inserito questo pezzo al 41esimo posto nella classifica dei 500 migliori di tutti i tempi. Una canzone che però fu motivo di tensione tra i membri del gruppo. Nonostante anche gli altri sostenessero di aver dato il loro contributo, nei crediti compare soltanto Robbie, l’unico a beneficiare delle royalty. Prima che la cantassero a Woodstock, era già famosissima. Merito del ruolo da protagonista nella colonna sonora del film Easy Rider, che uscì negli Stati Uniti il 14 luglio dello stesso anno.

«Find the Cost of Freedom» (Crosby, Stills, Nash, Young)

“Scopriamo il costo della libertà / sepolto nella terra. / Madre Terra ti ingoierà / sdraiati.” Ha soltanto quattro versi questa sorta di haiku versione West Coast e si appiccica irrimediabilmente addosso sin dal primo ascolto, anche grazie alla perfezione delle armonie dei quattro. È Stephen Stills l'autore di Find the Cost of Freedom, che esce come B-side di Ohio (canzone di protesta scritta dopo la sparatoria alla Kent State University). Chiudendo con la semplicità incisiva della sua chitarra acustica, unita alle voci a cappella, proprio Stills augura la buonanotte a tutti gli astanti alla fine del set di Woodstock. Con questa ninna nanna gospel dolceamara.

«My Generation» (The Who)

La band di Pete Townshend avrebbe dovuto suonare nel secondo giorno del festival (il 16 agosto), dopo i Jefferson Airplane, ma tutte le scalette vennero stravolte e cominciò a suonare che erano già le 5 del mattino seguente. La canzone Mod per antonomasia, Townshend l’ha scritta durante un viaggio in treno da Londra a Southampton nel giorno del suo ventesimo compleanno: il 19 maggio del 1965: «My Generation rappresenta principalmente la lotta per trovare un posto nella società. Mi sentivo del tutto spaesato all’epoca. La band era molto giovane e nessuno avrebbe scommesso sulla sua durata. Resta lo statement più efficace che io abbia mai fatto.» A Woodstock gli Who chiudono proprio con My Generation e Naked Eyes, mentre a Bethel comincia ad albeggiare.

È stato faticosissimo scegliere soltanto alcuni dei brani - e soprattutto degli artisti - che si sono avvicendati sul palco in quelle quattro giornate di musica non-stop. Ecco perché, a dispetto delle dichiarazioni dei detrattori - «Macché mito, Woodstock fu uno schifo», ha detto per esempio Eddie Kramer, il produttore che filmò tutto - anche noi avremmo voluto esserci e tornare a casa con i jeans sporchi di fango. Ne sarebbe valsa la pena.