Questa storia ormai è entrata nella mitologia familiare. La raccontiamo a Maya, la figlia grande, ogni volta che vogliamo dimostrare quant’era determinata fin da piccola. C’è sempre qualcuno che la tira fuori al suo compleanno, oppure prima che parta per un viaggio di lavoro all’estero.
Quando le ricordano la storia, lei sorride. E io anche. Benché entrambi, io penso, sappiamo che la versione ufficiale, quella di pubblico dominio, è incompleta.
Una sera, quando Maya aveva sette anni, stavo partendo per Berlino per lavoro. La valigia era pronta, avevo persino già stampato il biglietto, poi ho aperto il cassetto per tirare fuori il passaporto, e non c’era. Erano le undici di sera. Il taxi sarebbe arrivato alle due di notte. Ho cominciato a cercare freneticamente. Ho aperto altri cassetti, ho aperto altri armadi. Ho rovesciato il contenuto della valigia sul pavimento. A un certo punto ho anche svegliato mia moglie. La coscienza mi rimordeva, ma l’ho svegliata lo stesso e le ho chiesto di aiutarmi a cercare.
È stata lei a proporre di svegliare Maya. Durante i giorni prima di quella partenza, Maya non aveva fatto che piangere. Implorava che non partissi. Avevo cercato di calmarla. Le avevo promesso un mucchio di regali da Berlino: una casa per le bambole, un vestito, un aeroplanino telecomandato. Niente da fare. Non smetteva di stringersi a me, di avvinghiarsi con le sue braccine, come se dovessi andarmene per sempre. Maya, per caso sai dov’è il passaporto del papà?
Sì, ha risposto senza esitare. E dove? ho chiesto io. L’ho nascosto. Ci riveleresti dove l’hai nascosto? No.
Nelle due ore successive le ho provate tutte: ho minacciato, supplicato, cercato di corrompere, di convincere. Ma la bambina continuava a scuotere la testa in diniego.
Per la disperazione, ho cominciato a mettere a soqquadro la stanza. Ho buttato per terra le bambole, ho svuotato l’intero armadio dei giocattoli. Ho rotto per sbaglio un bicchiere con sopra disegnato un cuore che aveva ricevuto dalla cuginetta.
Calmati, cosa stai facendo? Mia moglie è entrata in camera e mi ha fermato prima che perdessi completamente il controllo. Una singola lacrima si è staccata dall’occhio di Maya ed è scivolata lungo la guancia. Ma quando mi sono inginocchiato e le ho ripetuto – dov’è il passaporto? – ha di nuovo scosso la testa.
Ricordo il pigiama che indossava: farfalle di colori diversi che sembravano decollare dalla stoffa. Ricordo lo sguardo nei suoi occhi: troppo disincantato per la sua età.
Lasciala in pace, ha detto mia moglie in tono diverso. In cui ho avuto l’impressione di sentire un pizzico di soddisfazione maligna. Non funzionerà, David. È cocciuta proprio come te.
Ho cancellato il taxi. Ho tolto il portatile dal trolley. Ho attaccato la spina e ho mandato una mail all’ufficio della nostra società a Berlino, scusandomi: non sarei potuto arrivare «A causa di un imprevisto in famiglia».
Dopo essermi assicurato che mia moglie dormiva, ho mandato anche una seconda mail, a un altro indirizzo, in cui raccontavo la verità e promettevo di mettermi in contatto al più presto per definire un nuovo appuntamento. La seconda mail l’ho cancellata, come tutte le precedenti spedite a quell’indirizzo, dalla posta inviata e per sicurezza anche dal cestino.
L’indomani mattina tra la posta in arrivo mi aspettava una breve risposta. Entrambi sapevamo che prima o poi avresti dovuto decidere. Ecco, adesso hai fatto la tua scelta. Per favore, non scrivermi più. Se dovessi scrivermi, non risponderò. Vicino alla chiave della mia auto, nell’ingresso, mi aspettava un foglietto di Maya, con sopra disegnato un cuore. Di fianco, il mio passaporto.
(Traduzione Raffaella Scardi)