La vicenda di Torino – dove la sindaca ha cacciato il vicesindaco e ha minacciato le dimissioni, cioè le elezioni anticipate – non è una bega locale tra fazioni di 5stelle, ma un episodio importante nei conflitti storici e attuali tra ambientalismo e sviluppismo, tra verde pubblico e usi commerciali, tra logica dei grandi eventi o del benessere quotidiano, oltre che tra nuova monocrazia (il sindaco, il leader) e quel poco che rimane della logica parlamentare dei consigli.
Certo il mix esplosivo che ha provocato la frattura (o la forzatura di Chiara Appendino) è quello stesso del movimento delle madamine Sì Tav: è un’ansia di “crescita” mista a una narrazione a quanto pare egemone della “questione torinese” come problema di una città che “si fa soffiare” le occasioni di soldi pubblici o di eventi-ribalta. Questo ultimo aspetto, forse sì, è squisitamente e peculiarmente torinese, perché si riferisce a una serie di episodi diversi, anche casualmente accomunati dal fatto che – o dalla percezione del fatto che – Torino ha perso qualcosa (segnatamente, le Olimpiadi invernali a favore di Milano) o rischia di perdere qualcosa (il Tav Torino-Lione).
Questo sentimento viene coltivato e propagato in una direzione politica contro i 5stelle che avrebbero – per via di un altro mix, quello tra incapacità e ambientalismo – bloccato con i loro No la crescita italiana e/o torinese. Il sentimento di questo fronte nostalgico di tutto – delle grandi opere come delle grandi infrastrutture come degli inceneritori e persino della possibilità di circolare in auto e gratis nel centro di Torino, unica grande città italiana che ancora lo consente – è in grado di espandersi molto sia – diciamo così – a destra, dove pervade tutto il mondo che vota Lega–Fi–Fdi, che anche a sinistra, dove si ammanta di integrazionismo (basta veti, ci sarà più lavoro anche per i migranti).
Il prevalere, almeno apparente, di un sentimento Sì Tav nell’opinione pubblica da quando i 5stelle sono al governo, e l’entusiasmo tutto italiano per le Olimpiadi invernali – che nessuna delle città del mondo vuole più! – sono abbastanza indicativi di questo movimento di restaurazione sviluppista che ha Torino come uno dei suoi epicentri. Questo il quadro in cui si colloca l’arroccamento o attacco di Appendino nei confronti di una parte decisiva, perché costituente, della sua Giunta e della sua maggioranza.
Costretta alla difensiva perché tenta di introdurre a Torino una misura antitraffico già in vigore da un decennio a Milano, dileggiata ogni giorno dal fronte sviluppista olimpico (da Salvini al Pd) perché non si tornerà a far debiti per il bob, Appendino non ha retto alla “perdita” di un bivacco di gazebo con annesse automobili nel Parco del Valentino che tutta la minoranza ambientalista di Torino non sopportava da anni. Il vicesindaco licenziato non era l’assessore incaricato di seguire la manifestazione o il Parco, ma il poveretto che era stato mandato a calmare le acque in una riunione del quartiere contrario alla manifestazione delle auto. Si era lasciato scappare una battuta, pretestuosamente citata parecchi giorni dopo, come possibile causa del trasloco a Milano.
Il problema ora non è tanto quello di discutere se il gesto “autorevole” di Appendino, applaudito dal notabilato imprenditoriale locale, sia stato la prova di forza di un nuovo corso o una prova di debolezza quasi disperata. Non si tratta neanche di dare la pagella alla parte ambientalista della Giunta e dei 5S. Il problema per tutti gli ambientalisti è che siamo sotto attacco, è come si fa a trasferire l’ondata di preoccupazione per i cambiamenti climatici in un atteggiamento più serio, coerente, sobrio e realmente innovativo nei confronti di ciò che consideriamo “successo” o “insuccesso” di una città.
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