Dal fallito golpe al colpo al cuore della Nato. Così si potrebbero sintetizzare gli ultimi tre anni della Turchia di Erdogan, dalla sera del 15 luglio 2016, quella del fallito colpo di stato, fino alla consegna ad Ankara, venerdì scorso, dei missili russi S-400. È la prima volta che accade una cosa del genere: la Turchia è membro dell’Alleanza dal 1952 e la Dottrina Truman ne aveva fatto l’avamposto sud orientale contro l’Urss.
Ma dalla notte del colpo di stato la Turchia ha cambiato campo con un rapido slittamento verso oriente. Ankara fa parte del sistema di sicurezza occidentale con 24 basi, armi nucleari comprese, e doveva ricevere i nuovi caccia F-35 – ora congelati – ma con l’epurazione nelle Forze armate Erdogan ha fatto fuori i generali laici e kemalisti, più fedeli alla Nato che a lui: sono stati esautorati 17mila militari di ogni grado e 7.300 sono sotto processo.
La mattina seguente il fallito golpe ero a Istanbul con Ahmet Altan, lo scrittore condannato all’ergastolo, accusato di avere fatto parte della cospirazione. Passammo davanti a una caserma della Nato, sigillata dai militanti dell’Akp mentre su uno dei ponti sul Bosforo c’era ancora il sangue del suo vice comandante turco, ucciso mentre era alla testa dei ribelli. Incirlik, la base aerea americana, decisiva per i raid contro l’Isis, era stata chiusa: per una settimana mancò la luce.
«Questo è un tornante della nostra storia», disse Altan che alle vicende di questo Paese ha dedicato saggi e romanzi. Non poteva immaginare che quell’evento lo avrebbe portato dietro le sbarre senza che l’Europa alzasse un dito, mentre in carcere finivano a migliaia, politici, militari, giudici, giornalisti, insegnanti, la leadership curda del partito Hdp, insieme agli affiliati della rete islamica Feto guidata dall’imam Fethullah Gulen, in esilio negli Usa.
Ma l’Europa è quello che è, ricattata da Erdogan che si tiene in casa 3 milioni di profughi siriani mentre lui sfida Bruxelles con le prospezioni offshore al largo di Cipro. Prima o poi anche l’Unione sarà chiamata a reagire: un’altra grana che si profila all’orizzonte.
Ci sarà però un giorno in cui, riscrivendo le cronache di questi anni, qualcuno si domanderà come mai finora gli stati dell’Unione non abbiano detto o fatto nulla nei confronti di Erdogan. E quando vorranno trovarne le ragioni sarà per constatare che i Paesi trainanti dell’Unione, insieme agli Stati uniti, sono stati suoi complici e allo stesso tempo l’hanno preso in giro con la chimera dell’ingresso in Europa. Erdogan ha gioco facile a presentarsi come un leader perché l’Europa non si oppone davvero mai a nulla, dal riconoscimento americano di Gerusalemme capitale dello stato ebraico all’annessione del Golan, agli insediamenti dei coloni contro ogni risoluzione dell’Onu. Pur avendo perso il sindaco di Istanbul, il leader turco ha buon gioco nel fare leva sul nazionalismo, oltre che sull’identità musulmana dell’elettorato tradizionalista.
La sfida a Washington nasce da una escalation di incidenti tra Usa e Turchia culminati quando, dopo il colpo di stato fallito, esponenti del partito di maggioranza Akp accusarono gli americani di essere convolti. Non solo. Gli Usa ospitano da 20 anni l’imam Fethullah Gulen ritenuto dai turchi il vero capo della rete golpista. E gli americani, Trump compreso, hanno sempre negato la sua estradizione.
Ma tra le questioni critiche ce ne sono diverse. Erdogan ha spesso accusato le istituzioni finanziarie Usa di fare parte della «lobby del tassi di interesse» che ha messo sotto pressione la lira turca. Non a caso ha appena fatto fuori il capo della banca centrale: in Turchia non accadeva dal golpe del generale Evren dell’80.
Poi c’è il problema della Siria. Nel 2011 gli Usa e la Turchia, con le monarchie del Golfo, erano allineati nel tentativo di abbattere Assad al punto che Erdogan ospitava, con l’assenso del segretario di Stato Hillary Clinton, jihadisti di ogni genere e provenienza. Poi le cose si sono complicate. La Turchia è arrivata a uno scontro con la Russia – intervenuta a fianco di Assad – per l’abbattimento di un caccia Sukhoi ma Putin è stato abile a sfruttare l’episodio convincendo Erdogan che la Russia in Siria gli era più utile degli Usa che stavano tramando per una Nato “araba” capeggiata da Israele. Non solo. Gli Stati uniti hanno sostenuto i curdi siriani nella lotta al Califfato mentre Erdogan ritiene che siano tutti «terroristi» e ha persino occupato una parte della regione curda siriana. Trump è stato quindi costretto a tenere le truppe sul campo per evitare uno scontro diretto tra forze armate turche e curdi siriani.
Ecco perché la Turchia si è avvicinata così fortemente a Mosca, con cui ha anche in progetto il gasdotto Turkish Stream, osteggiato da Washington, e una mega commessa per la costruzione di una centrale nucleare. Così Erdogan ha fatto nascere una «Nato a due teste», un ibrido da laboratorio che deve abbaiare al mondo le sue rivendicazioni e forse non mordere.
* Fonte: Alberto Negri, IL MANIFESTO
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