Questo articolo è stato pubblicato sul numero 17 di Vanity Fair, in edicola fino all’1 maggio 2019
«Non ha idea delle bretelle che ho preso, un labirinto era più facile». La vita di Alessio Boni si svolge spesso in «ufficio», la sua auto, mentre attraversa l’Italia spostandosi tra set e teatri. Chilometri che filano con il vivavoce acceso, con l’attore che cerca di imbroccare l’uscita giusta mentre si perde in una telefonata con la sua compagna, Nina. «Succede spesso», confessa. Mentre prova a raggiungere Lamporecchio, provincia di Pistoia, racconta la sua ultima impresa, il thriller Non sono un assassino, in cui è un magistrato che, all’inizio del film, muore.
Quante volte è morto sul set?
«Tante, dal suicidio nella Meglio gioventù, che ricordano molti. Sono morto interpretando Heathcliff di Cime tempestose, il principe Andrej di Guerra e pace, Puccini, Caravaggio…».
I ruoli storici, in effetti, non aiutano.
«Esorcizzano la morte. Anche se a non averne paura me lo ha insegnato mia nonna Maddalena, che era del 1908. Una volta, avrò avuto cinque anni, giocavo con un topolino a molla. Lei disse, in bergamasco: quella roba lì è la metafora della vita. Per un po’ va, poi tutto finisce. Ha visto morire due figli, ma non si è mai disperata, aveva una dignità enorme».
Spesso parla delle sue origini, a Sarnico, sul Lago d’Iseo, e della ditta familiare di piastrellisti.
«Perché la storia di uno che prendeva 5 mila lire al metro e andava al serale di Ragioneria ma poi riesce a diventare un attore piace».
Forse perché l’ascensore sociale, ai tempi del reddito di cittadinanza, ha qualcosa di mitologico.
«Ho sempre fatto mille lavori, dopo il piastrellista. Il servizio militare in polizia, a Milano, e con i 12 milioni di stipendio sono andato in America. Poi il babysitter, il cameriere, il pizzaiolo, il pony express, l’animatore nei villaggi. Volevo fuggire dalla provincia».
Una fuga deve essere dritta, direbbe suo padre.
«Quando me ne sono andato non mi ha parlato per due anni, per lui la mia partenza è stata una pugnalata. Eppure la fuga mi ha portato alla fuga: la precisione maniacale del posare le piastrelle è quello che poi mi è servito nel mio lavoro. Per portare Don Chisciotte in teatro ho letto tutto quello che si poteva su Cervantes».
Quando ha capito, anni dopo, di avere riconquistato suo papà?
«Ai tempi di Incantesimo. Non importava che nel frattempo avessi lavorato con Strehler e Ronconi: la gente lo fermava per strada per dirgli che mi aveva visto in tv, quindi era orgoglioso».
Anche oggi, dopo il successo della Compagnia del Cigno su Raiuno, e i suoi sei milioni di telespettatori a puntata, vede una differenza di popolarità rispetto a quando legge Alda Merini?
«Certo. Mi fermano per strada, o vengono a teatro e si complimentano, e poi mi dicono: domani guardo la puntata in tv».
Ogni tanto si concede una vacanza?
«Tra teatro, letture, audiolibri, radiodrammi, film, quasi mai. Dico anche dei no, ma se un progetto mi piace non voglio perdermelo».
Gira molto tra città e piccoli borghi: che idea si è fatto dell’Italia?
«È un Paese spaventato, senza leader ai quali fare riferimento, in cui fa presa facilmente il populismo. C’è molta precarietà nel lavoro e le persone vanno fuori di testa: non sono né di destra né di sinistra, hanno solo paura. Serve un capro espiatorio, ora sono gli immigrati. Nel Don Chisciotte, per fare Sancho Panza, abbiamo scelto Serra Yilmaz: donna e immigrata turca. Per noi un segnale di inclusione. Ci sono tanti cinesi, filippini, di seconda generazione, che vogliono fare gli attori, ma dove sono nei film? Eppure esistono – Roma di Cuarón non ha fatto che mettere una colf messicana al centro».
Riesce ad avere una vita privata?
«Gli attori sono nomadi, starò a casa, in Toscana, tre mesi l’anno. Nina e io cerchiamo di non far passare il weekend senza vederci. Stiamo insieme da quattro anni così, e va benissimo: certo, manca il quotidiano».
A volte è meglio.
«Non avremo la crisi del settimo anno, ma del quattordicesimo, perché se contiamo il tempo netto che siamo stati insieme sono due anni, il resto è al telefono». Ride.
A Vanity Fair pochi mesi fa ha detto che vorrebbe quattordici figli, un’iperbole che nasconde un desiderio fortissimo o una boutade?
«Tutto vero: se potessi tornare indietro i figli li farei prima, perché mi manca lo sguardo di un bambino. Ne basta uno, anche».
Se succedesse, sarebbe disposto a cambiare i suoi ritmi?
«Assolutamente sì, non ho dubbi».
È diventato regista teatrale con Don Chisciotte, ora ha detto di voler passare anche dietro la macchina da presa. È vero?
«Ho un soggetto fantastico, ma devo fermarmi: bisogna scrivere la sceneggiatura, cercare le location, fare il casting, girare, montare, le musiche… Ci vuole almeno un anno».
Può fare un figlio, allora, avrebbe una nuova scusa per fuggire.
«Perché no? Sarebbe meraviglioso».