«Confusa, felicissima. Mi devo riabituare, devo riposare: questa notte non ho dormito per l’eccitazione, per la gioia, quella precedente per l’angoscia. Sto bene, sono molto contenta». Sono le prime parole che Cecilia Sala, giornalista, affida alla voce tremante ma ferma durante un’intervista con Mario Calabresi, nel podcast di Chora Media dal titolo “I miei giorni a Evin, tra interrogatori e isolamento“. Le sue frasi scandiscono la cronaca di un incubo che, inaspettatamente, ha avuto una fine più rapida di quanto lei stessa osasse sperare.
«Mi hanno bussato alla porta, pensavo fossero persone delle pulizie. Non lo erano, mi hanno portato via». Racconta il momento dell’arresto con le lacrime agli occhi. Sala, trascinata nel carcere di massima sicurezza di Evin, a Teheran, ha affrontato ventuno giorni di isolamento, interrogatori e il silenzio che, lei stessa confessa, era il nemico più insidioso.
Eppure, anche nella prigione iraniana, ci sono stati momenti di gioia. «Sono riuscita a ridere due volte. La prima volta che ho visto il cielo e poi quando c’era un uccellino che faceva un verso buffo». Due lampi di leggerezza in una quotidianità segnata dall’assenza di sonno e dalla mancanza di stimoli.
«Il silenzio è un altro nemico in quel contesto», confida. L’idea di immergersi in un’altra storia, fosse anche quella di un libro, era un desiderio ardente che non si è mai realizzato. «Qualcosa che mi portasse fuori». Persino il Corano in lingua inglese, richiesto nella speranza che fosse il solo testo disponibile, le è stato negato per giorni.
Le ore trascorse a Evin sembravano infinite. «Ad un certo punto mi sono ritrovata a contare i giorni, a contarmi le dita, a leggere gli ingredienti del pane, che era l’unica cosa in inglese». La testa, in assenza di distrazioni, diventa un terreno di battaglia. «Non ti stanchi, quindi non hai sonno, non dormi. Lì dentro un’ora sembra una settimana».
Il disagio fisico si mescolava a quello mentale. «Avevo delle coperte, ma non avevo cuscini o materassi. Mangiavo tanto riso, con lenticchie e carne. Il problema non è stato mangiare, ma dormire». L’assenza degli occhiali, tolti per ragioni di sicurezza, ha reso l’esperienza ancora più alienante: «Io non vedo senza gli occhiali e non me li hanno mai dati fino agli ultimi giorni, perché puoi spaccare il vetro e usarli per tagliarti».
Sala non ha mai smesso di riflettere sul perché della sua detenzione. «Avevo letto poco prima la notizia che c’era stato un arresto in Italia. Ho pensato, tra le ipotesi, che potesse esserci l’intenzione di usarmi», dice Cecilia. Lo spettro di essere pedina in un possibile scambio la accompagnava ogni giorno. E anche il momento della liberazione è stato intriso di incredulità. «La prima volta che mi hanno detto che sarei stata liberata non ci ho creduto. Pensavo che fosse un trucco».
Accanto alla gioia per la fine dell’inferno, emerge un senso di colpa che Sala definisce «dei fortunati». «Ci sono persone che erano lì da moltissimo tempo. Ovviamente penso a loro. Pensavo a loro anche prima di ritrovarmi in questa situazione», ammette con il fiato spezzato.
Cecilia non dimentica chi ha reso possibile il suo ritorno a casa. «Siete stati bravi tutti: Daniele, i miei genitori, le persone con cui e per cui lavoro, ovviamente il governo, la diplomazia, i servizi di sicurezza. Le condizioni erano davvero complicate», conclude ancora incredula.
L'articolo Cecilia Sala, il primo podcast dopo la liberazione: “Sono riuscita a ridere due volte nella mia cella” sembra essere il primo su Secolo d'Italia.