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In Italia la fabbrica degli ignoranti tra crisi della scuola e disuguaglianze sociali

di Dario Spagnuolo

L’inizio di un nuovo anno è sempre un momento di bilanci: si tirano le somme sull’anno passato e si pubblicano indagini statistiche che raccontano lo stato di salute dell’Italia e degli Italiani.

Il 58° Rapporto Censis 2024 mette in luce alcune tendenze particolarmente preoccupanti. L’Italia “paese dei sonnambuli”, incamminato tristemente verso la propria estinzione per crisi demografica, è intrappolata nella “medietà”: una tendenza a non avere mai né crisi drammatiche, né slanci vertiginosi. Una sorta di fatalismo funzionale al disimpegno e al qualunquismo. 

Un paese appiattito e depresso, insomma, in cui si manifestano molti sintomi di una grave crisi democratica: non ci si reca più a votare e prevale la sfiducia nelle istituzioni repubblicane e comunitarie.

Giustamente, il Censis punta il dito su “La fabbrica degli ignoranti”, il fatto cioè che sebbene il numero di analfabeti sia crollato e tutti, in qualche misura, siano passati per i banchi di scuola, il grado di conoscenza è tale da non consentire la pratica della democrazia, ovvero il voto consapevole.

L’indagine è impietosa: c’è chi definisce il culturista come una persona di cultura, chi crede che Giuseppe Mazzini sia un politico della prima Repubblica, chi non sa nemmeno chi sia l’autore della Divina Commedia, chi ritiene che l’italianità sia riscontrabile nei tratti somatici.

E’ un quadro drammatico, che si aggrava tra coloro che hanno frequentato un istituto tecnico o professionale.

Ad andare peggio, però, è la popolazione adulta, quella oramai lontana dai banchi di scuola ed esclusa da una formazione adeguata. Sono quasi un terzo gli analfabeti funzionali: persone che pur avendo studiato e conseguito un titolo di studio fanno fatica a comprendere cosa leggono, a risolvere un problema semplice, a individuare gli elementi essenziali di un’informazione. L’Italia è anche il paese OCSE con il maggior numero di lavoratori adulti in possesso della sola licenza media. Si colloca, insomma, tra i paesi meno istruiti.

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, ogni anno questi dati sono utilizzati per mettere sotto accusa la scuola pubblica, tacciandola di inefficienza e di inefficacia e promuovendo, in maniera più o meno palese, la scuola privata.  In particolare, si sostiene che la pubblica istruzione avrebbe fallito il compito di portare i ragazzi del Sud allo stesso livello di conoscenze e competenze di quelli del Nord. Anche il Rapporto Iea TIMSS 2023, infatti, afferma: “In Italia, si rilevano punteggi in linea con il dato medio nazionale per tutte le aree geografiche ad eccezione del Sud Isole che raggiunge un punteggio significativamente inferiore.”

Insomma, la scuola che la Costituzione ha individuato come l’ascensore sociale per il successo dei capaci e dei meritevoli, non funziona e secondo alcuni la responsabilità è della cialtroneria meridionale. Questo ragionamento, però, stride con il fatto che i risultati sono migliori dove c’è più scuola.

Per capire meglio la problematica è utile ragionare sulla diffusione del tempo pieno nella scuola primaria (quella elementare), introdotto con la L. 820 del 1971. Nel Nord Ovest sono a tempo pieno il 53,1% delle classi di scuola primaria, nel Nord Est il 47,9%, nel Centro il 54,7%, nel Sud il 26,4% e nelle Isole il 21,6%. Nel Sud e nelle Isole, insomma, accede al tempo pieno meno della metà dei bambini del Nord e del Centro. La situazione è persino migliorata perché appena 10 anni fa il rapporto era meno di un terzo. Il divario diviene enorme considerando le singole province. A Napoli, ad esempio, solo il 22,4% delle classi delle elementari è a tempo pieno, a fronte di province come Biella o Monza dove si oltrepassa il 70%.

Tempo pieno significa 40 ore di scuola settimanali, per un monte orario di ore di lezione pari a 1320 ore all’anno. Il tempo ridotto, nella scuola primaria, per legge può essere a 24 ore oppure tra le 27 e le 30 ore settimanali. Considerando il valore intermedio, cioè 27 ore, la stragrande maggioranza dei bambini del Meridione frequenta per 891 ore annue: 429 ore in meno! In cinque anni di scuola primaria un alunno meridionale svolge mediamente 2145 ore di lezione in meno. Circa due anni di scuola in meno ogni 5 anni.  

E’ sufficiente solo questo dato a spiegare il ritardo del Sud, anche perché a questa carenza si devono aggiungere l’assenza di asili nido, il divario nel tempo pieno nella scuola dell’infanzia, l’assenza di spazi mensa, l’assenza di palestre, la fatiscenza degli edifici scolastici.

Insomma, la scuola è aperta a tutti, come sancito dall’art. 34 della Costituzione, ma da Nord a Sud la scuola non è la stessa.

Molti esperti guardano all’esperienza di paesi OCSE che ci precedono nelle indagini internazionali, come Giappone, Finlandia, Svezia, Norvegia, Paesi Bassi e altri ancora. Paesi in cui anche la qualità della vita è quasi sempre migliore di quella in Italia. Sono paesi che hanno innalzato l’obbligo scolastico molto prima dell’Italia e che investono quote rilevanti del PIL nell’istruzione. 

In molti di questi Stati non viene adottata nessuna delle soluzioni utilizzate in Italia. Ad esempio in Finlandia, paese considerato un modello da seguire, non esiste nulla di simile all’INVALSI. Si cerca invece di costruire una società educante. Insomma, i paesi con gli studenti migliori sono quelli in cui passa il messaggio che studiare serve, in cui esiste una meritocrazia legata al titolo di studio. In Italia, invece, il messaggio che prevale è che studiare non serve. I pochi laureati fuggono nei paesi dove sono apprezzati. In Italia per loro c’è il precariato e, spesso, si finisce alla dipendenze di personaggi improbabili. In altre parole, in Italia è frequente che  a capo di una redazione giornalistica finisca qualcuno con un basso titolo di studio, non avere studiato e non conoscere assolutamente le lingue straniere non è di ostacolo nel diventare ministro o nel ricoprire una carica importante.

In Giappone, Finlandia, Svezia, Norvegia, Paesi Bassi la scuola è considerata un’istituzione da preservare, da ostacolare il meno possibile. Non è gravata, come in Italia, da continue proposte di riforma quasi sempre scollegate dal contesto normativo precedente, con cui finiscono naturalmente per confliggere. Si pensi al balletto in merito di valutazione. Negli ultimi anni si è intervenuto esclusivamente sulla scuola primaria. Eppure la scuola primaria fa parte del I ciclo che unisce scuola primaria, con i giudizi, e scuola secondaria di I grado, con i voti numerici. Cosa sia un primo ciclo che non corrisponde nemmeno più alla scuola dell’obbligo e non condivide nemmeno i sistemi di valutazione resta un mistero. I voti, poi, dovrebbero rimandare a giudizi, indicatori e descrittori. Ogni numero, insomma, dovrebbe essere discreto, senza misure intermedie tra un numero intero e l’altro.  Come mai invece si vedono 5 e mezzo e 7 più? Il malinteso scaturisce dalle norme che prevedono, solo al momento dell’esame, l’utilizzo delle medie aritmetiche, trasformando i numeri discreti in continui.

Rispetto alla scuola, in Italia c’è poi il culto del passatismo. Nonostante le tante riforme che hanno caratterizzato la scuola pubblica repubblicana (autonomia delle istituzioni scolastiche, innalzamento dell’obbligo di istruzione, decreti delegati, statuto delle studentesse e degli studenti, scuola media unica …) ci si continua a riferire idealmente alla riforma Gentile di epoca fascista (1923) e risalente al Regno d’Italia. In quella visione di scuola i licei erano riservati alla classe dirigente, le scuole tecniche e professionali alla manovalanza. Non erano possibili “passerelle”. 

Le scuole tecniche e professionali italiane hanno a lungo fornito manodopera qualificata alle imprese di tutto il mondo, finché la terza e, soprattutto, la quarta rivoluzione industriale non hanno dimostrato che la capacità di imparare rapidamente è più importante delle conoscenze specialistiche.

In Italia il tutto si è risolto con lo stigma di scuole di serie B sui tecnici e sui professionali.

Oggi, con la L. 121/2024, è stato varata la cosiddetta filiera tecnologico-professionale. Nulla di  particolarmente innovativo, gran parte dei contenuti sono già presenti in altre normative e non rappresentano un’innovazione. L’idea è quella di portare a 4 anni i percorsi tecnici e professionali, facendoli seguire da due anni di specializzazione presso gli ITS Academy, che dovrebbero preludere all’inserimento lavorativo nelle imprese.

Tuttavia, questa riforma non ha considerato che, sebbene la riforma Gelmini (2008/2009) abbia ridotto il monte orario delle scuole superiori, Istituti Tecnici e Professionali continuano ad avere il monte orario maggiore tra tutte le scuole secondarie di II grado. In particolare, i Professionali funzionano con 32 ore settimanali. Riducendo gli anni di studio da 5 a 4 e ridistribuendo il monte orario quinquennale su soli 4 anni si passa da 32 a 40 ore settimanali di lezione: un orario superiore a quello svolto da un impiegato o un operaio. Come affrontare 8 ore quotidiane di studio in scuole dove non è previsto il servizio mensa? Dove aggiungere le ore di alternanza scuola-lavoro? E’ ancora pensabile prevedere lo studio domestico dopo 8 ore di lezione? Un carico orario così elevato non è inefficace in termini di apprendimento?

Sono tutte questioni che la Legge 121/2024 lascia irrisolte e non è un caso che molti collegi dei docenti stiano esprimendo parere contrario all’adozione del 4+2, che rischia di trasformarsi nel de profundis degli Istituti Tecnici e Professionali.

Dopo i 4 anni, poi, gli studenti seguirebbero un biennio di specializzazione presso gli ITS Academy, ovvero un sistema formativo assegnato in parte alle Regioni e in parte alle imprese. Posto che molte regioni non sono pronte a varare tale modello, resta il problema di un apparato industriale italiano fondato sull’industria leggera e sulle piccole imprese, con distretti produttivi fortemente localizzati. C’è il rischio che, soprattutto nel Meridione, il 4+2 fallisca per assenza di imprese capaci di formare un numero comunque consistente di aspiranti.

L’impressione è che l’effetto “fabbrica di ignoranti” denunciato dal Censis sia il prodotto dell’incapacità di leggere i bisogni e fornire risposte efficaci. Forse, cominciando semplicemente da “più scuola per tutti”  i risultati sarebbero migliori.

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