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La transizione delle compagnie petrolifere: dal greenwashing al greenkilling. Si torna alle fonti fossili

Dal greenwashing siamo ormai passati al greenkilling. L’aria è cambiata, non c’è più bisogno di far finta di avere a cuore l’ambiente, ora le multinazionali annunciano a gran voce disinvestimenti dalle rinnovabili e proclamano la loro dedizione alle fonti fossili. Questo è ciò che vogliono azionisti ed investitori, perché i soldi continuano a farsi molto più con petrolio, carbone e gas che con vento e sole.

Le rinnovabili richiedono investimenti, mentre la gigantesca infrastrutturazione per i fossili già esiste. Quando i tassi erano a zero e finanziare progetti costava poco, il gioco valeva la candela. Ora non più. E se prima la politica cercava almeno di indicare una strada, ora l’atmosfera che prevale è quella del liberi tutti. Le scadenze slittano, le dichiarazioni si fanno più blande, le regole si annacquano, le proteste si reprimono. Nel frattempo le emissioni di Co2 segnano l’ennesimo record, i consumi di idrocarburi pure e all’obiettivo di contenere entro gli 1,5 gradi l’aumento della temperatura globale non ci crede più nessuno.

L’ultimo in ordine di tempo di una lunga serie di annunci è stato quello di British Petroleum che ha sbandierato la sua intenzione di ridurre “significativamente” i suoi investimenti nelle energie rinnovabili “per il resto del decennio”. Come prima mossa ha dimezzato lo stanziamento per la joint venture con la giapponese Jera per le attività nell’eolico. Negli anni scorsi la società inglese, nota tra l’altro per il disastro umano ed ambientale della Deepwater Horizon nel golfo del Messico, aveva tinteggiato il suo logo di verde splendente e aveva deciso di non voler essere più chiamata compagnia petrolifera ma “compagnia energetica”. Altri tempi.

Ad un certo punto i colossi europei degli idrocarburi si sono trovati a dover rincorrere i concorrenti americani, come Exxon o Chevron, che erano stati molto più timidi nell’abbracciare, almeno nelle intenzioni, i propositi di addio alle fonti fossili. Ma con i prezzi del gas saliti alle stelle, principalmente per effetto della guerra in Ucraina, e il petrolio stabile su quotazioni relativamente elevate, i big del settore hanno ricominciato a fare utili da capogiro. Così gli investitori si sono riversati in massa verso quelle compagnie che non avevano palesato alcuna volontà di lasciare questo lucrosissimo business.

Shell, la più grande compagnia petrolifera privata al mondo, è stata tra le prime a fare un’inversione a 180°. Nel 2023, il nuovo amministratore delegato Wael Sawan ha chiarito: “Investiremo nei modelli che funzionano, quelli con i rendimenti più alti”, che non sono certo quelli con il minore impatto ambientale.

Le compagnie petrolifere conoscono da almeno mezzo secolo i devastanti danni che la loro attività provoca all’ambiente. Ad Exxon, recentemente, va almeno riconosciuto il merito di una spregiudicata sincerità. “Non facciamoci illusioni, gli obiettivi di lotta al cambiamento climatico sono irraggiungibili”, ha scritto la compagnia in un rapporto in cui si attende che il consumo di petrolio resterà sostanzialmente stabile nei prossimi anni e che nel 2050 le emissioni di gas serra saranno scese solo del 25%, se va bene.

Chi c’è dietro queste compagnie? Chi le controlla e potrebbe agire per un maggior impegno a difesa del pianeta? A farla da padroni sono i soliti colossi della finanza anglosassone come Blackrock, State Street, Vanguard, Fidelity, Jp Morgan. Al di là di roboanti proclami, questi soci si sono distinti per essere particolarmente allergici a qualsiasi strategia aziendale che possa sacrificare dei profitti a favore di una maggiore sostenibilità ambientale. Risoluzioni di questa natura che arrivano in assemblea vengono regolarmente respinte dai soci che contano.

Non molto tempo fa, alcune di queste società hanno risposto a domande rivolte loro da parlamentari britannici incaricati di capire come il Regno Unito potrebbe ottemperare ai suoi impegni di riduzione delle emissioni di Co2. Quello che è emerso è che nessuna di queste società ha intenzione di interrompere o ridurre significativamente i finanziamenti all’industria delle fonti fossili. A riversare fiumi di denaro sulle fonti fossili è comunque tutta la finanza internazionale, banche italiane come Intesa Sanpaolo o Unicredit incluse.

I fondi Esg, almeno in teoria ispirati a criteri di sostenibilità, sono stati molto pubblicizzati dalle società finanziaria quando i tassi erano a zero e ad offrire rendimenti decenti alla clientela non ci riusciva nessuno. Bisognava infatti trovare un altro modo per invogliare le sottoscrizioni. Ora anche questi prodotti stanno finendo nel dimenticatoio. A fine 2023, per la prima volta, i disinvestimenti dai prodotti Esg, hanno registrato un deflusso netto di capitali. I fondi Esg che chiudono superano quelli che nascono. La raccolta dell’ultimo trimestre è stata di appena 10 miliardi, contro i 160 dello stesso periodo di tre anni fa.

Questo quando desolante è frutto di un tragico errore di fondo. Si è pensato che la tutela dell’ambiente potesse andare di pari passo con la tutela dei profitti. Che a sistemare le cose ci avrebbero pensato i mitologici meccanismi del mercato. Non è così, sta accadendo esattamente il contrario. Già nel 2009 Mark Fisher scriveva: “La causa della catastrofe ecologica è una struttura impersonale che, nonostante sia capace di produrre effetti di tutti i tipi, non è un soggetto capace di esercitare responsabilità. Il soggetto che servirebbe, un soggetto collettivo, non esiste: ma la crisi ambientale, così come tutte le altri crisi globali che stiamo affrontando, richiede che venga costruito”. O si cambia approccio o il destino dell’ecosistema in cui tutti noi viviamo è segnato.

L'articolo La transizione delle compagnie petrolifere: dal greenwashing al greenkilling. Si torna alle fonti fossili proviene da Il Fatto Quotidiano.

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