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Cosa aspettarsi dalla politica nel 2025

Una sinistra che urla ma con poca sostanza. I compagni della coalizione di centrodestra, litigiosi però uniti. L’Europa e gli americani che danno credito. Nell’anno che arriva, l’esecutivo di Giorgia Meloni può davvero cambiare verso al paese.

Dureremo fino al 2027». Nell’eventuale attesa, Giorgia Meloni può già bearsi. Nulla fa presagire clamorosi impedimenti. Bettino Craxi rimase a Palazzo Chigi 1.093 giorni. Se anche il 2025 filasse liscio, la premier salirebbe così sul podio repubblicano: terzo governo più longevo di sempre. In patria, del resto, nel 2025 non s’intravedono grandi pericoli. Elly Schlein, che sogna di affrontarla alle prossime politiche, rimarrà a malapena leader del Pd. Giuseppe Conte, affetto da fregolismo congenito, sarà tallonato dal deposto fondatore, Beppe Grillo, che vuole sottrargli il simbolo e l’onore. Gli altri pretendenti si lambiccano: chi tenterà di riesumare il centrino, il declinante Beppe Sala o il riscossore Ernesto Maria Ruffini? Davanti a tali insolvibili enigmi, Giorgia può dunque dormire fra due guanciali di piuma d’oca.

Per carità, non è che nella maggioranza tutto fili liscissimo. Forza Italia e Lega baruffano, enfatizzando il gioco delle parti: moderati e destroni. Certo: Antonio Tajani, capo dei forzisti, non stravede per Matteo Salvini, segretario leghista. Ma i due vicepremier sono ormai maestri nell’arte del tiremmolla. D’altronde, nonostante qualche screzio, il centrodestra in parlamento rimane unito. E l’imminente 2025? «L’anno che verrà sarà quello delle riforme che spaventano molti. Andremo avanti sul premierato, così temuto dai campioni olimpici dei giochi di palazzo, sull’autonomia differenziata, sulla riforma fiscale e della giustizia» scandisce Meloni dal palco di Atreju. La separazione delle carriere, di cui si parla da un trentennio, sembra quella meglio avviata, nonostante la furibonda opposizione di giudici e pm. Giorgia, però, insiste: «Vogliamo liberare la magistratura dal controllo della politica e delle correnti politicizzate». La riforma più scivolosetta è invece l’autonomia differenziata, vista l’opposizione dei governatori forzisti.

Non sarà però il proscenio italiano a regalare grandi soddisfazioni. Svecchiare il Paese resta un’impresa defatigante e ciclopica. In Europa, invece, non potrebbe andar meglio. Come ama ricordare Meloni, il governo italiano è quello più stabile tra i grandi Paesi del continente. Germania e Francia, per lustri, hanno giganteggiato. Adesso fronteggiano una crisi feroce e inedita. A Berlino Olaf Scholz si è dimesso. Il 23 febbraio 2025 ci saranno le elezioni anticipate, ma le possibilità di vittoria per il cancelliere rasentano lo zero. I suoi socialdemocratici arrancano nei sondaggi. La maggioranza del Bundestag sarebbe invece dei popolari, seguiti dall’estrema destra.

Comunque vada, s’annunciano tempi cupissimi. La recessione sarà aggravata dal crollo del settore automobilistico. L’instabilità politica rischia di essere perfino peggiore di quella francese. Emmanuel Macron ha perso le elezioni. S’è arroccato all’Eliseo, ma è ostaggio di destra e sinistra. Lo scorso settembre ha nominato primo ministro Michel Barnier. Dopo tre mesi s’è dimesso, infrangendo ogni record: il governo più breve della Quinta repubblica. Così, monsieur Macron si ritrova isolato in patria e sempre meno influente in Europa.

Tutto il contrario dell’arcinemica italiana. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, è stata eletta con la maggioranza più striminzita e rissosa della storia. Non può fare a meno di Meloni e dei conservatori di Ecr. Ha già nominato vicepresidente esecutivo Raffaele Fitto, armato di «un pacchetto di competenze che vale mille miliardi» gongola Giorgia. La prossima concessione di Ursula potrebbe essere imminente: anticipare al 2025 la clausola di revisione sul Green deal dell’auto elettrica. A quel punto, l’Italia chiederà di rimuovere anche il veto sui biocarburanti. Sono l’avanguardia dell’Eni, il nostro colosso energetico, e uno dei capisaldi del Piano Mattei, che prevede robusti investimenti negli Stati africani.

Scholz, Macron e Von der Leyen arrancano. Ma non è l’unica contingenza internazionale favorevole. Nel frattempo, avanza lo schiacciasassi Donald Trump. I profeti di sventura, oltre a sognare l’isolamento in Europa, speravano che le pacche con il vecchio presidente americano, Joe Biden, facessero incarognire il suo successore. Macché. «Meloni è fantastica» la esalta Trump. Lo stesso fervore viene mostrato pubblicamente da Elon Musk, l’imprenditore più ricco e influente del pianeta: «Ha fatto cose incredibili». I rapporti con la presidente del Consiglio, puntellati anche da una scenografica visita a Roma del tycoon, sono ormai strettissimi. I tweet a sostegno dell’amica sono sperticati.

La premier punta, quindi, a diventare la mediatrice tra le sponde atlantiche. Tanto da voler organizzare nei prossimi mesi tramite lo «zio Elon», come lo chiamano nel clan Trump, una chiamata chiarificatrice tra Von der Leyen e il presidente americano, che minaccia sostanziosi dazi contro l’Europa. Avvisaglie pericolose. Così il ruolo di Meloni, possibile portiera tra Bruxelles e Washington, sarebbe ancor più strategico. Difatti, l’opposizione non perde occasione per denunciare ingerenze di Musk nella politica italiana. C’è da capirli, comunque. A sinistra continuano a tribolare. Il futuro non pare certo sfavillante. Elly tenta faticosamente di accreditarsi come l’anti Giorgia: ovvero, colei che la sfiderà nel 2027. Campa cavallo. E poi, la segretaria fatica ancora a imporsi tra i cacicchi, figurarsi nel sedicente campo largo. L’unica, insperata, soddisfazione è di essere ancora al suo posto. A marzo 2025 festeggerà due anni filati al Nazareno. Chi l’avrebbe mai detto? Più di Enrico Letta e Nicola Zingaretti, i suoi predecessori.

Per il resto, a parte qualche slogan ben riuscito, c’è poco da brindare. La «testardamente unitaria» si ritrova, ogni volta, a dover ripartire dall’inizio. Sui Cinque stelle, ovviamente, non può contare stabilmente. Il partito è ormai nelle mani di Giuseppi, il più celebrato trasformista della storia repubblicana. Si autoproclama «progressista indipendente». Che vuol dire? «Come se fosse Antani» chiarirebbero gli impenitenti di Amici miei. Il Conte Mascetti, sul modello «prematurata la supercazzola o scherziamo?», dice ad Atreju: «Non farò lo junior partner del Pd». Dunque, caro Giuseppi? Ancora una volta: boh. Eppure, viste le asfittiche percentuali, verrà a miti consigli. In primavera dovrebbero andare al voto cinque regioni. In Veneto, per esempio, la stantia alleanza è già siglata. Tutti insieme, poco appassionatamente. Mentre in Campania si spera nella clemenza di Schlein, che potrebbe concedere la candidatura allo scalpitante Roberto Fico, già presidente della camera pentastellato. Todos caballeros, anche qui. Come alle regionali in Liguria, dove il Movimento ha appoggiato l’ex pluriministro dem, Andrea Orlando. Alla fine, però, ha vinto lo sfidante di centrodestra: Marco Bucci, ex sindaco di Genova. Tra qualche mese, si voterà quindi per sostituirlo. Come noto: errare è umano, perseverare è diabolico. Così il campetto largo medita di ripresentare lo sconfitto Orlando, che s’è pure dimesso dal parlamento per fare lo scornato capo dell’opposizione in Liguria. Ed ecco l’ideona: visti i natali spezzini, perché non schierarlo ancora a Genova la prossima primavera? A quel punto, i Cinque stelle, che l’hanno già appoggiato nella sfortunata corsa a governatore, non potrebbero esimersi. Arroccato nel suo villone di Sant’Ilario, l’Elevato intanto medita vendetta. Giuseppi gli ha tolto l’adorato ruolo di garante e la profumata consulenza da 300 mila euro. Adesso Beppe, a capo della velleitaria Armata Brancagrillone, cercherà in ogni maniera di far fallire i già confusi propositi dell’azzeccagarbugli di Volturara Appula. A partire, magari, proprio dalle elezioni genovesi.

Il Conte Mascetti, tra l’altro, dovrà guardarsi le spalle anche dal Centro. Nella commedia politica italiana, difatti, c’è un nuovo protagonista: il tassator cortese, al secolo Ernesto Maria Ruffini. Guidava, da tempo immemorabile, l’Agenzia dell’entrate. S’è appena dimesso, colto da insopprimibili bollori. Sarà lui, pare, a tentare di riesumare il Centro: quell’ameno luogo elettorale, popolato un tempo dalla Dc. A sostenere il suo illustre profilo si scomodano leggendari cattolici di sinistra: da Rosy Bindi a Romano Prodi. Del resto, visto che Elly non può sempre contare su Giuseppi, non è meglio aprire un secondo forno, come insegnano gli avi scudocrociati?

Ed ecco un’altra ideona: schierare lo sceriffo di Nottingham tricolore. Autore, tra gli altri, del mancato bestseller L’evasione spiegata a un evasore. Con la pregiatissima prefazione del professor Prodi e l’immancabile postfazione dell’ex ministro Vincenzo Visco, soprannominato «Dracula». Comunque, il ruolo è ambito: pure Beppe Sala, sindaco di Milano, freme all’idea. Tanto da affossare già Ruffini: «È bravissimo, ma lo conoscono in pochissimi». Mal che vada, potrebbe scendere in campo, con la flemma che lo contraddistingue, un’altra leggenda: «Er moviola», l’eterno Paolo Gentiloni, ex premier e commissario europeo. Prodi permettendo, s’intende.

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