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Gli ‘schiavi dei divani’ raccontano la lotta per i loro diritti: “Turni da 12 ore, promesse tradite e insulti. È stata dura, ma abbiamo vinto”

“Prima lavoravamo 12 ore al giorno senza riposo e dormivamo all’interno della fabbrica, senza elettricità, senza acqua, senza alcun servizio. Le condizioni erano insostenibili”. Ghoulam è uno degli ‘schiavi dei divani’, che nelle scorse settimane hanno scioperato dopo mesi in una situazione ben oltre i minimi della decenza fino a ottenere una revisione del contratto e una situazione abitativa più dignitosa.

Insieme a un suo collega ha deciso di raccontare a Ilfattoquotidiano.it cosa accadeva nella fabbrica di Forlì, a patto di mantenerne l’anonimato. Ne viene fuori un racconto fatto di turni massacranti, promesse mai mantenute e un clima di abusi verbali e psicologici. Molti dei lavoratori sono di origine pakistana e sono tutti impiegati presso Sofalegname srl ma di fatto operavano per Gruppo8, un’azienda con sede nella città romagnola.

La loro storia è diventata nota nelle ultime settimane dopo che il sindacato Sudd Cobas ha denunciato apertamente le condizioni al limite dei lavoratori sfociando in un presidio permanente di una settimana che ha portato a un accordo finale con la ditta. “Dovevamo lavorare 12 ore al giorno per sei o sette giorni alla settimana. Non ci davano un buon salario. Vivevamo dentro la fabbrica in Via Meucci, senza servizi essenziali. A volte riuscivamo a mangiare, a volte no. Era davvero difficile”, continua il lavoratore. Ogni richiesta di miglioramento veniva respinta: “Il capo diceva: ‘Se vuoi lavorare, devi accettare questa condizione. Altrimenti puoi andare fuori, ma non hai un altro posto dove andare’”.

Com’è iniziato tutto? “Vivevamo a Prato, poi questo proprietario ci ha contattati e ci ha detto che ci avrebbe dato una casa, un giorno libero a settimana e uno stipendio di 1.200 euro iniziali. Ma ci ha anche detto che il lavoro sarebbe stato di 12 ore”, racconta Noor, nome di fantasia di un altro giovane lavoratore di poco più di 20 anni, di origine pakistana. Tutti accettano perché sono già abituati al meccanismo di sfruttamento di Prato dove “si lavora 12 ore senza giorni liberi, quindi abbiamo pensato: andiamo in questo posto, avremo un giorno libero e una bella casa in cui vivere”.

Non è stato così. La speranza di una vita migliore è subito diventata un’illusione: “Per l’alloggio ci hanno dato solo due stanze in una fabbrica”. Con scarse condizioni igieniche, “bagni” inadeguati e senza riscaldamento, in un periodo dell’anno in cui a Forlì le temperature notturne scendono vicine allo zero. Così davanti alla promessa che le cose sarebbero migliorate e di una casa in vista, gli operai iniziano a lavorare e chiedono più volte nel corso dei mesi di avere una sistemazione adeguata, arrivando pure a minacciare di andarsene. La risposta del loro superiore però è imperativa, stando al loro racconto: “Non potete lasciare questa casa, mi crea problemi. E dovete lavorare qui come degli asini”. Il tutto basandosi sulla consapevolezza che molti di loro non sapevano dove andare, spiega Noor.

I lavoratori si trovano dentro un sistema “a matrioska” per cui alla base c’è Sofalegname – una ditta a conduzione cinese, un piccolo appaltatore con 1000 di capitale – ma la loro produzione è di fatto per Gruppo8, azienda italiana di Forlì che produce divani e mobilio per il brand del lusso dell’arredamento internazionale HTL che ha sede a Singapore e sta al vertice di questo sistema a catena. Oltre alla sistemazione in magazzino, queste persone si trovano a dover lavorare duramente per 12 ore al giorno, per 5 euro l’ora, senza riposo, malattia, ferie, neanche il permesso per fumare una sigaretta.

“A luglio lavorava 12 ore e non è facile perché è un lavoro pesante”, aggiunge Noor. Perché se d’inverno la sistemazione al freddo, in estate a Forlì le temperature arrivano fino a 40 gradi. “E sì, ogni giorno per i primi due o tre mesi abbiamo lavorato sei giorni”. Poi qualcosa cambia e i lavoratori perdono anche quell’unico giorno di pausa, la domenica: “Ci dicono che dovevamo sette su sette. Abbiamo risposto: ‘No, ci avevate detto che non avremmo lavorato la domenica’. Ma poi hanno detto: ‘No, vi darò dei soldi extra’”. Davanti alla promessa di qualche soldo in più pur di lavorare anche nell’unico giorno “libero” sottostanno a turni di 12 ore per 7 giorni su 7: molti di loro hanno bisogno di quei soldi anche per mandarli alle famiglie nei Paesi di origine.

Soldi extra che in realtà non vedranno mai. Un’altra promessa a vuoto, perché continuano a vivere nella fabbrica e in un clima psicologico pesante: “Ogni volta i lavoratori cinesi usavano un linguaggio molto offensivo, con insulti gravi contro le nostre famiglie, la mamma o la sorella. Tutto questo mentre vivevamo dentro la fabbrica, senza alcun servizio”, racconta Ghoulam. “Il capo diceva: ‘Vi do una casa e ci vivrete dentro’. Ma in realtà dovevamo lavorare e vivere dentro la fabbrica”. A questo punto dopo il cambio dei turni a sette su sette e le promesse non mantenute, i dipendenti decidono di rivolgersi al sindacato: conoscono Sudd Cobas perché a Prato, dove molti di loro hanno vissuto, ha aiutato altri amici pakistani e quindi contattano i sindacalisti dalla Toscana raccontando la situazione in cui si trovano.

“Abbiamo incontrato Luca, Sara e altri membri di Sudd Cobas. Loro ci hanno spiegato dello sciopero, cosa fare e cosa il capo ci stava facendo”. Iniziano lo sciopero e il presidio fuori e all’interno delle due sedi di Gruppo8 a Forlì per rivendicare i loro diritti ma non è una lotta facile, la paura c’è: “Quando abbiamo iniziato lo sciopero, eravamo preoccupati per il lavoro e per le nostre famiglie perché se non mandavamo i soldi a casa sarebbe stato un grosso problema. Quindi per noi è stato complicato iniziare”. Ma l’unione con gli altri colleghi, il supporto del sindacato e la voglia di stroncare una vita da schiavi prevale. Sono giorni di tensione, emozioni contrastanti e attesa fino a quando arriva la notizia di un accordo con l’azienda: turni di 8 ore per 5 giorni a settimana e contratti regolari e un vero alloggio.

Noor ricorda il momento in cui l’ha saputo come uno dei più felici: “Abbiamo festeggiato. Sì, è un cambiamento, un grande cambiamento, perché ora possiamo tornare a casa e, a volte, chiamare la nostra famiglia in Pakistan o i nostri amici. La nostra vita ora sarà diversamente”, dice ancora Ghoulam. “Prima dello sciopero, era davvero troppo difficile. Non c’era rispetto, solo sfruttamento. Adesso tutto è molto più equo e siamo molto felici”, aggiunge. Mentre Noor è felice perché finalmente può seguire un corso di italiano, fondamentale per vivere in questo Paese mentre prima poteva solo “lavorare e dormire”.

Il giovane operaio riflette: “Se lavoriamo 12 ore, che tempo dedichiamo alla nostra famiglia? Se lavoriamo 12 ore, come passiamo il tempo con i nostri amici, come andiamo anche solo a comprare qualcosa che ci serve? Non è possibile”. Il caso – secondo i rappresentanti di Sudd Cobas – non rappresenta un’eccezione, la situazione evidenziata dai lavoratori è solo uno dei tanti esempi di sfruttamento nel settore logistico: “Molti sono costretti a vivere in condizioni al limite e a subire turni di lavoro massacranti. È fondamentale intervenire per garantire diritti e dignità a tutti”.

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