di Alessia de Antoniis
Daniele Pecci, al teatro Parioli fino al 22 dicembre, è Oscar Wilde in Divagazioni e delizie di John Gay; pièce della quale cura anche traduzione e regia. Regista assistente è Raffaele Latagliata, “il macchinista” è Alessandro Sevi, i costumi sono di Alessandro Lai, le musiche originali di Patrizio Maria D’Artista.
“Parigi, 28 novembre 1899; Una serata con Sebastian Melmoth (Oscar Wilde)”. Novanta minuti solo in scena. Sul volto i segni del tempo e delle sofferenze patite. Sovrappeso, mostra tutta la sua decadenza fisica. Si muove con lentezza. Le sue condizioni di salute non sono buone: ha problemi a un orecchio – Scusate… ho avuto un incidente in carcere… sono caduto a terra. Ero molto debole e ho battuto la testa. … A quanto pare mi sono rotto il timpano e non mi hanno curato. Ora i medici dicono che non devo più bere assenzio e nemmeno fumare – I piaceri di un tempo sono ormai suoi nemici, tuttavia per me una vita senza piaceri non vale la pena di essere vissuta. Il primo dovere nella vita è di goderla. E il secondo? Il secondo non l’ha mai scoperto nessuno.
Al Parioli Pecci recupera un Oscar Wilde alla fine della sua vita, a Parigi, povero e malato, con la fama di pervertito, privato degli affetti e del nome – Mi chiamo Oscar Fingal O’ Flahertie Wilde. Non sono inglese. Sono irlandese. Che è tutt’un’altra cosa. … Vi domanderete chi è Sebastian Melmoth? Lo avete davanti. Sebastian Melmoth l’ho inventato io. È un alter ego che ho adottato durante questo mio esilio qui in Francia – Ma anche un Wilde che getta la maschera, che si lascia vedere nelle sue debolezze, piegato da due anni di lavori forzati. Un Wilde che non è più quello degli Aforismi. Pecci dà corpo e voce a un Wilde che per sopravvivere intrattiene persone da un palco, raccontando la sua vita, passando da ricordi di famiglia a considerazioni sull’arte.
Uno spettacolo a due tinte: una prima parte divertente, quella che richiama il Wilde brillante, ironico, sagace, dilettevole degli Aforismi; e una seconda parte scura, segnata dal De Profundis, dalla scelta sbagliata di affrontare una battaglia persa in partenza in un tribunale inglese; il rifiuto di seguire i consigli di chi lo aveva spinto ad andare oltremanica, in una Francia meno moralista; la presa di coscienza di essere stato vittima dello scontro tra un figlio rancoroso e suo padre, il marchese di Queensberry – Bosie mi ha tradito. … Solo in seguito scoprii che l’odio per suo padre era molto più profondo del suo amore per me.
Daniele Pecci ignora la quarta parete dialogando con il pubblico, coinvolgendolo con l’autoironia che probabilmente avrebbe usato lo stesso Wilde. Un Wilde capace di trasformare il giudizio in spettacolo – Siete venuti a vedere Oscar Wilde in carne e ossa. Ebbene eccovelo: sono vostro per tutta la sera. Uno scandalo vivente – che attacca la società voyeuristica e perbenista dell’epoca, non dissimile da quella odierna. Che scherza caustico – Guarda, c’è quella schifezza di Oscar Wilde.
Con Divagazioni e Delizie Pecci mette in luce la genialità di Wilde come pensatore, scrittore e, soprattutto, intrattenitore. Diverte il pubblico in sala con frasi sarcastiche riferite a giornalisti, che riflettono la sua critica nei confronti della stampa e del sistema morale dell’epoca vittoriana – Anticamente gli uomini avevano la gogna e altri strumenti di tortura. Oggi abbiamo la stampa –. Biasima la curiosità morbosa di una categoria che alimentava scandali e pettegolezzi sulla sua vita personale, trasformandolo in un bersaglio per il pubblico. Un Wilde che non dimentica di rivolgere lazzi pungenti anche al pubblico, più interessato a volgarità e frivolezze che a contenuti culturali o profondi. Che non risparmia quei critici che hanno la loro importanza, anche se non mi viene in mente quale; che dicono possano essere comprati, anche se a vederli non dovrebbero costare poi tanto.
Attraverso le parole di Wilde, Pecci porta in scena una lucida, e attualissima, analisi dei media del tempo, evidenziando la lotta dello scrittore contro la diffamazione e il moralismo della bigotta società vittoriana.
Pecci/Wilde affascina il pubblico con l’attacco alla sedicente letteratura, quella dei libri che una volta venivano scritti dagli artisti e letti dal pubblico. Oggi i libri sono scritti dal pubblico col risultato che non li legge più nessuno; chiedendosi come mai “Capitani coraggiosi” del signor Kipling sia popolarissimo oggigiorno. Non riuscirò mai a capire perché un autore debba scrivere un libro sulla pesca del merluzzo. Sarà perché il merluzzo non lo mangio mai.
Ridicolizza gli americani privi di cultura – come quello che fece causa al venditore della Venere di Milo arrivata danneggiata, senza braccia – e senso dell’umorismo – Sono di una serietà anormale. Forse perché l’America non ha mai perdonato all’Europa di averla scoperta -; che, quando in dogana gli chiedono Qualcosa da dichiarare? Risponde Sì, sono un genio.
Elemento narrativo fondamentale è la luce, che amplifica il legame emotivo tra il protagonista e il pubblico. Un’alternanza tra luce fredda, che cade dall’alto, e calda, proveniente dal basso, che riflette simbolicamente lo stato d’animo dell’artista; che sottolinea momenti di introspezione e solitudine, evidenziando la vulnerabilità dell’uomo quasi congelato nel suo dolore e nella sua riflessione; che evoca la passione che anima il protagonista, come un faro che sfida l’oscurità circostante. Un gioco di luci che accompagna le sfumature della recitazione di Pecci, creando un’atmosfera che cattura lo spettatore e lo trasporta nel mondo interiore di Wilde, tra ironia tagliente e profonda malinconia.
Daniele Pecci al teatro Parioli di Roma governa la scena, riempie lo spazio; a tratti shakespeariano, sa bilanciare note chiare e scure. Un’ottima prova d’attore per uno spettacolo che, forse, beneficerebbe di una riduzione di una decina di minuti.
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