Sulla chiesa degli armeni di via Giustinelli è calato il silenzio. Il suo campanile s’intravede anche da lunga distanza, incorniciato fra le case d’epoca del colle di San Vito. Tutto il resto è un mistero: inaccessibile da quasi quindici anni, le condizioni disastrate in cui versa l’edificio sono scomparse dall’agenda del dibattito locale. Ogni tanto l’argomento torna alla ribalta, ma è un fuoco fatuo, destinato a spegnersi in breve tempo o a rimanere isolato.
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«Noi non ce ne laviamo le mani», ribadisce Adriana Hovhannessian, vicepresidente del comitato Ararats, che raduna i cittadini armeni rimasti nel capoluogo giuliano. A mancare sono, come sempre, i fondi per poter avviare il recupero. Ma a mancare è anche una stima indicativa dei danni accumulatisi nel tempo, per la quale sarebbe necessario un sopralluogo: Hovhannessian parla di «almeno cinque milioni», la realtà è che però, al momento, nessuno ne ha precisa contezza.
Una fine tanto più ingloriosa quanto è invece illustre la storia della chiesa di via Giustinelli, dedicata alla Madonna delle Grazie. Di proprietà della Congregazione mechitarista armena, che ha sede sull’isola di San Lazzaro a Venezia, è stata per mezzo secolo affidata in comodato d’uso alla comunità cattolica tedesca, dagli anni Settanta fino al 2009. Quella data, di fatto, ha coinciso con l’ultimo anno di apertura della chiesa e con l’inizio del suo declino.
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Il progetto originario risale al 1858, steso dopo aver ottenuto il beneplacito di Vienna e grazie allo sforzo economico di Gregorio Ananian. Accanto al luogo di culto, l’edificio si compone di due ali che nel tempo hanno avuto numerose destinazioni: collegio-convitto, sede del parroco, infine otto appartamenti di cui uno è ancora abitato.
Le vere ricchezze, culturali s’intende, si trovano all’interno. Oltre a un’ampia sacrestia e a quattro finestre ben visibili dalla navata centrale, il tocco di pregio è rappresentato senza dubbio dal grande organo di Julius Kugy, che lo ha donato alla Congregazione. Senza contare i fregi e, in generale, l’impianto architettonico di cui dispone la chiesa, testimoniato da molte fotografie d’epoca.
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«L’organo è in sicurezza», garantisce Hovhannessian. Il problema è ciò che lo circonda: un cumulo di detriti andato moltiplicandosi dal 2009, trasformando l’edificio in una sorta di magazzino abbandonato. Le condizioni si erano fatte drammatiche nel 2017, con il crollo parziale del tetto che aveva messo a repentaglio la tenuta della chiesa. La minaccia aveva tuttavia sortito l’effetto di catalizzare l’attenzione, producendo un duplice intervento: prima della Regione, che aveva ricavato dalla manovra del 2018 circa 90 mila euro per il restauro della sagrestia e del tetto; poi della Fondazione CRTrieste, per sanare l’accesso alla chiesa. Uno sforzo sufficiente a scongiurare gli esiti peggiori, non certo ad avvicinare la prospettiva di una riapertura. Che è rimasta lontana fino a oggi. —
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