Messaggio dal tycoon: caro Bibi vinci ma non strafare, il troppo stroppia. Un abbraccio, il tuo amico Donald.
Un messaggio “virtuale” ma che dà il senso di un rapporto in divenire che potrebbe determinare impreviste frizioni tra alleati di ferro: Donald Trump e Benjamin Netanyahu.
Gli Stati Uniti vedono un cambiamento drammatico in Medio Oriente, mentre il nuovo equilibrio regionale pende a favore di Israele
Uno scenario sintetizzato con il succitato titolo che Haaretz dà all’analisi a tutto campo di uno dei suoi analisti di punta: Amos Harel.
Annota Harel: “Chiunque si sia recato a Washington questa settimana sarà rimasto un po’ sorpreso nel trovare entusiasmo, quasi esaltazione, per i drammatici cambiamenti che si stanno verificando in Medio Oriente. A quanto pare è una questione di geografia. Dal punto di vista di Israele, è impossibile ignorare la nube permanente che i costi elevati della guerra stanno producendo: quasi 1.800 morti da parte nostra, 100 ostaggi ancora trattenuti nella Striscia di Gaza, i fallimenti del governo nel gestire la riabilitazione delle comunità colpite nel sud e nel nord. Per non parlare del comportamento intollerabile della star dello show, che questa settimana ha sfruttato la piattaforma del suo processo per una lunga dimostrazione di arroganza, vittimismo e paranoia.
Ma dalla capitale americana, alla vigilia dell’elezione presidenziale, emerge un quadro più ampio, in cui ci sono sia luci che ombre. Si riflette nelle opinioni dei membri dell’amministrazione uscente e tra gli esperti degli istituti di ricerca, la maggior parte dei quali non sono, per usare un eufemismo, fan del presidente eletto Donald Trump. Secondo loro, il nuovo scossone regionale del Medio Oriente – una serie di sviluppi mozzafiato che si stanno verificando a rotta di collo e in barba a tutte le convenzioni e le previsioni precedenti – rappresenta anche un’opportunità. In uno scenario particolarmente ottimistico, il nuovo comportamento di Israele, unito a un presidente americano che nel rimettersi in carica intende infrangere tutti gli assunti di base che hanno guidato i suoi predecessori, potrebbe portare a ulteriori cambiamenti nell’equilibrio strategico.
Questo non cancella in alcun modo lo spaventoso fallimento israeliano del 7 ottobre 2023. Tuttavia, i risultati ottenuti negli ultimi mesi non possono essere ignorati. Di recente, l’equilibrio si è spostato a favore di Israele. L’assalto terroristico iniziato dal leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, ha effettivamente inflitto a Israele un disastro senza precedenti, ma non ha raggiunto il suo obiettivo finale. Sinwar ha cercato di accelerare la realizzazione del “piano di annientamento” di Israele di cui si era parlato nell’asse iraniano, ma senza condividere la data dell’attacco con gli stessi iraniani o con Hezbollah in Libano.
Un anno e due mesi dopo, l’ala militare di Hamas è stata ampiamente disattivata, la maggior parte della capacità militare di Hezbollah è stata distrutta e il regime di Assad in Siria è crollato. Lo status regionale dell’Iran è al minimo storico degli ultimi 30 anni. Un alto funzionario dell’amministrazione Biden, a cui è stato chiesto quale lezione avrebbe voluto trarre da questi eventi, ha risposto: Le forze che operano in Medio Oriente devono capire che questo è il prezzo da pagare per chiunque lanci una guerra contro Israele.
Tuttavia, il risultato strategico a lungo termine non sarà necessariamente quello che la destra israeliana immagina. Il secondo mandato di Trump, che non è ancora iniziato, è come il sorriso della Gioconda: Ognuno ci legge dentro quello che vuole. È vero che alcuni dei principali incaricati del presidente entrante sarebbero facilmente inquadrabili nel Likud o nel partito Otzma Yehudit di Itamar Ben-Gvir. Ma una visione retrospettiva del primo mandato di Trump rivela che è stato pieno di contraddizioni, anche su questioni strategiche o ideologiche apparentemente importanti.
Nel contesto israeliano, l’esempio lampante di questa propensione è stato il tanto sbandierato “accordo del secolo” del 2020. L’entourage del Primo Ministro Benjamin Netanyahu aveva già promesso “la sovranità domenica prossima” dopo i colloqui preliminari con l’amministrazione, in cui si era discusso dell’annessione degli insediamenti in Cisgiordania. Dietro le quinte, era in corso una lotta titanica tra due confidenti del presidente – il genero Jared Kushner e l’ambasciatore statunitense in Israele David Friedman – che si è conclusa con una clamorosa vittoria di Kushner. Con una velocità fulminea, l’annessione è stata eliminata dall’agenda.
Le contraddizioni interne sono apparse anche nell’approccio di Trump all’Iran e all’Arabia Saudita. Israele ama crogiolarsi nella gloria dell’impressionante assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani. D’altro canto, Trump ha ignorato le proteste dei sauditi dopo che l’Iran aveva attaccato i loro impianti di produzione di petrolio qualche mese prima e ha mostrato moderazione quando l’Iran ha abbattuto un enorme e costoso drone americano.
Nell’ordine di priorità della nuova amministrazione, gli sviluppi strategici in Asia orientale e la competizione con la Cina avranno un posto molto più alto rispetto alle vicende del Medio Oriente. L’avversione di Trump per le guerre, per lo spreco di risorse nell’assistenza alle democrazie di tutto il mondo e per la morte di giovani americani in guerre che non sono le loro è ben nota. Come si comporterà quando l’accordo per gli aiuti alla sicurezza di Israele per il prossimo decennio sarà rinnovato nel 2026 ed entrerà in vigore due anni dopo? Il mantenimento degli aiuti annuali di 3,8 miliardi di dollari non può più essere dato per scontato, soprattutto dopo che Trump ha nominato il multimiliardario Elon Musk per mettere mano alla burocrazia governativa.
L’inner circle di Washington è ora immerso in un prodigioso sforzo di analisi di ogni nomina annunciata da Trump. Chi è impegnato in questo lavoro ignora la probabilità che la maggior parte delle nomine non durerà più di un anno in carica, come è successo nel primo mandato di Trump. Tutto ciò che è chiaro è che Trump rimarrà imprevedibile. Non solo capriccioso; lo shock e lo stupore che le sue decisioni generano sono un elemento deliberato della politica.
Gerusalemme e Washington condividono l’idea che i recenti sviluppi in Medio Oriente abbiano inferto a Teheran un colpo strategico e abbiano indebolito notevolmente la sua posizione regionale. La caduta del regime di Bashar Assad ha conseguenze pratiche. La mezzaluna sciita non era solo un concetto, ma un continuum geografico – una via di terra, per lo più aperta, tra quattro capitali su cui si estendeva l’arco di influenza iraniano: da Teheran a Baghdad a Damasco e da lì a Beirut. Dopo il cessate il fuoco imposto a Hezbollah in Libano, le Guardie Rivoluzionarie iraniane avevano intenzione di riavviare il progetto di contrabbando di armi verso l’organizzazione sciita. Questa settimana il percorso è stato bloccato.
La vulnerabilità dell’Iran va oltre la debolezza dei suoi proxy. Il contrattacco israeliano contro l’Iran del 26 ottobre, a seguito del secondo attacco missilistico sferrato dal paese contro Israele 25 giorni prima, sta emergendo come un evento di importanza strategica. Israele ha inferto un duro colpo al sistema di difesa aerea dell’Iran e ha colpito duramente le sue capacità di produzione di missili balistici. Questo lascia Teheran, e i siti nucleari del paese, esposti a ulteriori attacchi. La speranza del regime di superare Israele nella corsa agli armamenti – in cui il ritmo di produzione dei missili balistici avrebbe superato di gran lunga quello degli intercettori – è stata apparentemente delusa, almeno per il prossimo futuro. Considerati insieme, questi sono due sviluppi che cambiano le carte in tavola.
Tuttavia, potrebbero anche avere l’effetto di spingere la Guida Suprema Ali Khamenei a prendere la decisione che ha evitato per tre decenni: ordinare ai suoi scienziati e generali di completare il processo di sviluppo delle armi nucleari. Nella guerra Russia-Ucraina, l ‘Iran si è schierato con Mosca, che è stata anche l’aggressore. Ma la leadership iraniana non ha ignorato il fatto che se Kiev non avesse rinunciato al suo arsenale di missili nucleari negli anni ’90, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la sua situazione oggi potrebbe essere molto diversa.
Il raro consenso bipartisan a Washington è che nessun presidente americano permetterà all’Iran di produrre armi nucleari. Il successo degli attacchi israeliani in Iran e la distruzione della maggior parte delle capacità di Hezbollah e dell’esercito siriano aumentano la fiducia di Israele nella sua capacità di mettere in atto azioni più ampie. La discussione sull’attacco ai siti nucleari non è più percepita come meramente teorica, né è limitata a Netanyahu e ai suoi accoliti. Tuttavia, la valutazione di persone che hanno ricoperto posizioni chiave nelle amministrazioni repubblicane e democratiche, compresi alcuni che hanno servito sotto Trump, è che la propensione del presidente eletto sarà quella di raggiungere un nuovo accordo nucleare, non di lanciare attacchi militari contro l’Iran.
Trump, secondo questo punto di vista, è orientato agli accordi, come ai tempi in cui era un magnate del settore immobiliare. La sua testa è rivolta agli affari, non da ultimo agli ingenti profitti che deriveranno agli Stati Uniti da accordi e accomodamenti con Riyadh, compresa una possibile normalizzazione israelo-saudita. La guerra fa male agli affari, inoltre Trump ha l’ossessione di vincere il Premio Nobel per la Pace, come la sua bête noire, l’ex presidente Barack Obama.
Gli Stati del Golfo sono certamente preoccupati che si vendichino se l’Iran viene attaccato. L’Arabia Saudita ha già sentito il braccio forte degli iraniani con l’attacco ai suoi siti di produzione di petrolio. Negli Emirati Arabi Uniti ci si chiede cosa resterà di Dubai, una città di torri di vetro, dopo un attacco alle strutture nucleari. A differenza di Netanyahu, che sostiene un attacco, molti israeliani preferirebbero un accordo a lungo termine, dopo che gli Stati Uniti avranno minacciato un attacco all’Iran. Allo stesso tempo, molti temono che Trump non voglia usare la forza militare e che gli iraniani lo capiscano”.
Una caduta strategica e quegli appetiti indigesti
Di grande interesse, sempre sul quotidiano progressista di Tel Aviv, è l’opinione del professor Dror Ze’evi, docente di studi mediorientali, membro fondatore del Forum for Regional Thinking e partecipante alle sessioni di dialogo mediorientale.
Osserva Ze’evi: “La caduta del regime siriano è un evento importante nella storia del Medio Oriente. La Siria è la chiave di volta dell’identità araba. È il luogo in cui ebbe inizio il Risveglio Arabo (Nahda) alla fine dell’era ottomana, è il luogo in cui il leader della rivolta araba, Faisal, pose la sede del suo governo alla fine della Prima Guerra Mondiale ed è il luogo in cui si sviluppò il nazionalismo con la fondazione del partito Baath negli anni ’40. I ribelli che hanno preso il controllo della Siria comprendono salafiti, jihadisti, moderati, sostenitori della Turchia, membri delle organizzazioni curde, drusi e musulmani sunniti. Ma tutti hanno dichiarato la loro fedeltà alla Siria nei suoi confini attuali. In questo momento, stanno cercando di tracciare un futuro per il popolo siriano senza l’ex dittatore Bashar Assad e i suoi collaboratori. Tutti parlano di democrazia e anche le organizzazioni radicali stanno mostrando apertura.
Il leader dei ribelli, Ahmad al-Sharaa (Abu Mohammed al-Golani), parla da ogni piattaforma possibile del suo desiderio di un governo rappresentativo che sia tollerante anche nei confronti degli alawiti, identificati con il vecchio regime. Forse alla fine si rivelerà un terrorista che condurrà il suo popolo ad attaccare Israele. Ma l’isteria su questo tema è esagerata
Israele è più forte di tutte le organizzazioni siriane messe insieme. E poiché l’aviazione ha già gli arsenali di armi chimiche e altre armi strategiche della Siria, quest’ultima non possiede nulla che possa minacciare Israele. Inoltre, in larga misura, devono il loro successo nello sconfiggere il regime ai risultati ottenuti dalle Forze di Difesa Israeliane nella guerra contro Hezbollah e l’Iran, e ne sono consapevoli.
Una democrazia, o qualcosa di simile, in Siria che si opponga all’intervento iraniano sarebbe un vantaggio significativo per Israele. Assicurerebbe la fine dei trasferimenti di armi a Hezbollah, si sbarazzerebbe delle milizie iraniane che si sono radicate in Siria e trasformerebbe in lettera morta il piano iraniano di un’operazione congiunta su più fronti per distruggere Israele. Inoltre, creerebbe un’apertura per la pace in futuro.
La crisi siriana apre anche altre porte. La stabilità della Siria sta a cuore sia a Israele che alla Turchia e questo permetterà loro di riprendere a parlarsi. Inoltre, sia la Russia che gli Stati Uniti hanno importanti interessi in Siria e la crisi mette Israele nella posizione di influenzare queste potenze.
Inoltre, dopo l’attacco diretto subito dall’Iran e il crollo dei suoi proxy, ci sono potenti elementi all’interno del paese interessati a riconsiderare la sua politica militante. È vero che il leader iraniano Ali Khamenei si oppone a questo passo, ma i gruppi moderati si stanno facendo sentire.
Eppure, nonostante tutto questo, Israele si comporta in modo brutale e poco lungimirante. Ha occupato il territorio siriano e si è posizionato fin dall’inizio come ostile alla Siria. Invece, subito dopo la caduta del regime, i leader del paese avrebbero dovuto augurare ai siriani di riuscire a sostituire il malvagio regime di Assad e dire che sarebbero stati felici di avere relazioni pacifiche e fraterne con la Siria.
Un pensiero strategico intelligente potrebbe abbracciare la nuova Siria e invitarla a unirsi al blocco moderato. Questo approccio potrebbe anche aiutare a consolidare gli Accordi di Abraham, ad avvicinarsi alla normalizzazione con l’Arabia Saudita e forse anche a moderare la rabbia del mondo nei confronti di Israele.
Ma in un governo miope, la politica sarà stabilita dall’establishment della difesa. Di conseguenza, gli alti funzionari della difesa devono abbandonare la pratica di vedere ogni nuovo sviluppo attraverso il mirino e iniziare a pensare in modo strategico”, conclude il professor Ze’evi.
Il fatto è, nostra chiosa finale, che la parola lungimiranza accostata a Netanyahu, Ben-Gvir, Smotrich, finisce per essere un tragico ossimoro.
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