Una singolare ricerca approda direttamente all’interno di uno dei luoghi caratterizzanti la nostra società, nel passato teatro di eventi di portata storica, ambienti di vita quotidiana, rivestiti di una patina di costume, di politica, di cronaca. Perché i Caffè rappresentano realmente uno spaccato della nostra vita, e se poi questi luoghi hanno anche superato il secolo di vita, riuscirà più semplice comprendere il loro ruolo e valore sociale.
Massimo Cerulo, professore ordinario di Sociologia nell’Università Federico II di Napoli e Chercheur associé al CERLIS (CNRS), Université Sorbonne Paris Cité, è netto: «frequentando i vecchi Caffè si impara a raccontare, diceva Eduardo Galeano. Ma si apprende anche la storia della società in cui si vive. Perché i Caffè, quelli storici in particolare, rappresentano scrigni di memoria collettiva che permettono di comprendere come si sia arrivati al presente. Attraverso quali discorsi, conversazioni, forme di lotta e militanza, manifestazioni artistiche e culturali».
In un saggio pubblicato quando ancora eravamo forzatamente costretti all’uso delle mascherine sanitarie -Andare per caffè storici, Il Mulino 2021- Cerulo, affondando le leve della sociologia direttamente nella materia viva della storia e della letteratura, ci fa pervenire un «invito a un viaggio in alcuni dei più noti Caffè storici italiani: un percorso che si snoda dal Nord al Sud della penisola, in otto città, partendo da Venezia e arrivando a Cosenza. Tutti i Caffè visitati sono “storici” nel senso che hanno almeno un secolo di vita, hanno ospitato al loro interno importanti eventi sociali, politici e culturali della storia d’Italia, mantengono parti degli arredi originali e sono tuttora aperti al pubblico».
Professore, partiamo dalla definizione.
«Con il termine Caffè – con la “C” maiuscola, per distinguerlo dalla bevanda – si intende un locale pubblico che offre ai suoi clienti ospitalità, ristoro, forme di interazione, intrattenimento, possibilità di comunicazione. La sua storia parte dal tardo Medioevo, quando sono apparse le prime tipologie nelle città musulmane del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente: nel 1600 sono arrivate in Europa e l’apparizione delle cosiddette coffeehouses («botteghe da caffè») ha rappresentato una rivoluzione sociale».
Addirittura “luoghi rivoluzionari”!
«Potrà sembrare scontato, oggi, ma per l’ampia libertà permessa ai frequentanti, i Caffè si sono realmente configurati come luoghi di libertà: di ingresso, di parola, di incontro, di conversazione, di osservazione, di informazione, di lettura, di espressione artistica individuale e collettiva. Un pilastro della sociologia contemporanea come Jürgen Habermas ha chiarito che proprio nelle prime coffeehouses (inglesi) si è generata la cosiddetta “sfera pubblica”, una rete per comunicare informazioni e prese di posizione, uno spazio discorsivo in cui incontrarsi e discutere, liberamente e senza costrizioni, di questioni e problemi di rilevanza pubblica e collettiva».
Esistevano addirittura delle regole comportamentali, piuttosto liberali…
«Ne riporto una, storica, per dare l’idea di questa rivoluzione sociale: “L’ingresso è libero ma prima, per favore, osservate le seguenti regole di buona creanza. In primo luogo, signori e cittadini operosi siano allo stesso modo i benvenuti e siedano senz’altro gli uni accanto agli altri; qui nessuno è considerato per il proprio rango ma ognuno occupi il primo posto disponibile e nessuno si alzi davanti a un altolocato per cedergli il posto”. Ebbene, i vincoli di ceto, classe, corporazione, famiglia che caratterizzavano lo spazio sociale fino a quell’epoca più diffuso - ovvero il salotto - iniziano a venire meno».
Una rivoluzione sociale, in pratica.
«A differenza del “salotto”, che si configurava come istituzione aristocratica-elitaria, nei Caffè si poteva entrare senza essere invitati, osservare senza essere multati, interagire senza chiedere permessi. La rivoluzione borghese elesse questi spazi a incubatori di una nuova società: ambienti di innovazione culturale, politica, sociale. Ecco la portata di tale rivoluzione».
Erano uno spaccato fedele della società del tempo. Anzi, la società nasceva forse nei Caffè?
«Nei Caffè ci si poteva informare sulle novità cittadine, discutere animatamente, prendere posizioni politiche, tramare intrighi, generare gruppi o associazioni, concludere affari. E poi scrivere (consumando un’unica tazzina, si potevano avere a disposizione per molte ore tavolo, pennino-carta-calamaio, luce e riscaldamento gratis), leggere quotidiani e riviste (dunque veicolare e formare opinione pubblica), ascoltare musica, fumare, schiacciare un pisolino, mercanteggiare, disegnare, imbastire flirt. Ma anche praticare attività ludiche, in quanto carte, biliardo, scacchi non mancavano quasi mai in questi locali, poiché il tempo che vi si trascorreva era spesso di distensione e distrazione».
Non un’affermazione postuma, ma la realtà storica, allora.
«Perché, lo ribadisco, dal 1700 in poi, i Caffè hanno ospitato il farsi della società italiana, accogliendo il manifestarsi del futuro della nazione, in particolare da un punto di vista culturale e politico. Culturale, perché i Caffè sono stati bureaux de l’esprit: luoghi di germinazione di forme di avanguardia artistica e di cenacoli letterari. Politico, perché in questi locali sono maturate forme collettive di resistenza al potere costituito che segneranno la storia d’Italia (i Moti del ’48, l’irredentismo, le guerre d’indipendenza, l’anti-borbonismo, i Garibaldini e l’Unità, l’antimilitarismo novecentesco, il Ventennio e l’antifascismo). Insomma, si socializzava apprendendo modi di comportamento e linguaggio, informazioni e nozioni culturali, forme di militanza politica. Ha scritto Piero Bargellini che “non si potrebbe scrivere una pagina di storia né politica né letteraria né artistica dell’Ottocento senza citare il nome d’un Caffè”».
Luoghi sempre più democratici ed egualitari.
«Nel XX secolo, direi, ambienti più popolari, accessibili davvero a tutti, nonché punto di riferimento per gli italiani che avevano l’abitudine di passare quotidianamente da questi luoghi: ad esempio, sia all’uscita dal lavoro che per discutere liberamente con colleghi o esponenti del sindacato. Non si tratta, dunque, di luoghi dove si entrava principalmente per gustare una bevanda. Nei loro ambienti si è formata una specifica “cultura del Caffè” italiana ed europea che è andata ben oltre la consumazione di un prodotto. Non a caso, George Steiner sostiene che “l’Europa è i suoi Caffè”, per l’importanza ricoperta da questi ultimi nel processo di formazione dell’identità nazionale e di quella europea».
E oggi che ruolo rivestono?
«Sono ancora spazi che scandiscono la vita di tutti i giorni, per quanto si sia sostituito spesso il nome con quello di “bar”, con riferimento ai ritmi sempre più veloci del Novecento, in cui si riduce il tempo per la conversazione, il salotto, la socialità lunga. Il termine “bar” viene infatti dalla lingua inglese e significa «sbarra» o «bancone». Nasce nel mondo anglosassone alla fine dell’Ottocento e caratterizza quei locali, autorizzati alla vendita di alcolici, in cui il ruolo principale è svolto appunto dal bancone in legno o metallo – con la sbarra corrimano posta sotto di esso, da cui la nota espressione “avviciniamoci al bar” – che separa i clienti dalla zona in cui sono esposti e conservati gli alcolici».
I Caffè, insomma, invitano a un ritmo di vita sociale più lento…
«Per essere precisi, i Caffè implicano la possibilità di sedersi ai tavolini, di “fermarsi e pensare”, di ritagliarsi uno spazio di riflessione nei ritmi sempre più invadenti della contemporaneità. Tuttavia, è evidente come la modernità abbia prodotto una compenetrazione tra i due termini (per quanto restino differenze evidenti riguardo, ad esempio, agli arredi). In tal senso, è interessante ricordare che, alcuni anni fa, l’antropologo statunitense Ray Oldenburg incluse sia i Caffè sia i bar nella categoria dei “third places”, ossia quei “luoghi terzi” caratterizzati da una socialità informale, a metà tra l’ambito pubblico e l’ambito privato, tra l’intimo-familiare e il lavorativo-professionale».
Diciamo che continuano a svolgere la propria funzione sociale…
«I Caffè oggi si sono, ovviamente, trasformati e adeguati al mutamento delle attività, dei consumi e all’esplosione dell’individualismo, al punto che molti di noi hanno il proprio locale preferito. Ci si reca per informarsi sulle novità cittadine, leggere i giornali, utilizzare il wi-fi, seguire un evento sportivo sugli schermi ecc. Una trasformazione degli spazi che, nel caso dei “vecchi” Caffè”, non tradisce la loro storia: luoghi di libertà, di democrazia, di uguaglianza, di civiltà. Ma anche luoghi di ambivalenza tra socialità e solitudine».
Ah, professore, vogliamo ricordare i Caffè storici da lei visitati, allora…
«Eccoli: a Venezia abbiamo il Florian, Il Lavena e Il Grancaffè Quadri, a Padova Il Pedrocchi, a Torino Al Bicerin, Il Fiorio, Il San Carlo e Il Baratti& Milano, a Trieste Il Tommaseo, Il Caffè degli Specchi, L’Antico Caffè San Marco, a Firenze Il Gilli, Le Giubbe Rosse e Il Paszkowski, a Roma L’Antico Caffè Greco, a Napoli Il Gambrinus e a Cosenza Il Gran Caffè Renzelli».