Il Mondiale di calcio torna nel deserto. Ora è ufficiale. Mancava solo la ratifica della Fifa ed è arrivata in un Congresso che ha dovuto solo rendere operativo uno scenario trasparente già da un anno e che riguarda non solo il paese che ospiterà la Coppa del Mondo nel 2034, ma anche il tris di nazioni che si sono aggiudicate l’assegnazione 2030. Ancora una volta ha vinto Gianni Infantino, più forte di accuse e polemiche. La più importante rassegna calcistica mondiale torna nel deserto e lo farà nel 2034 quando toccherà all’Arabia Saudita coronare un inseguimento iniziato quasi un decennio fa. E’ il nuovo Eldorado del pallone, se non per il movimento che sviluppa – ancora più che marginale nonostante lo shopping compulsivo in Europa nell’estate 2023 -, almeno per il giro d’affari che promette di innescare.
L’Arabia Saudita era rimasta da sola nella corsa all’edizione 2034, così come la cordata composta da Spagna, Portogallo e Marocco non aveva rivali per il 2030. Doppia assegnazione certificata e avanti così. Il dibattito sull’opportunità di andare a Riyadh e dintorni, lo stesso che ha accompagnato l’avventura in Qatar del 2022, seguirà per i prossimi anni ma non scalfirà la decisione della Fifa. Non quello calcistico, legato alle condizioni meteo di un luogo non adatto alla pratica ad altissimo livello del calcio, e tanto meno quelle politiche e umanitarie. Neanche il fascino di dover celebrare il centenario dalla prima edizione (1930, Uruguay) ha cambiato l’esito. Montevideo aveva presentato una candidatura insieme ad Argentina e Paraguay, salvo poi ritirarla accontentandosi di essere la casa delle prime tre gare in calendario l’8 e il 9 giugno 2030: una festa simbolica, poi tutti in aereo per trasferirsi dall’altra parte del mondo.
Piaccia o no, questi sono oggi gli equilibri della geopolitica del pallone. L’asse tra Infantino e l’Arabia Saudita è diventato progressivamente sempre più saldo, così come l’idea che il calcio mondiale debba per forza allargarsi ad altre realtà ed altri mercati. Nel 2026 la Coppa del Mondo sarà spalmata tra Stati Uniti, Canada e Messico e dopo il deserto saudita toccherà al mix tra Europa e Africa. Il tutto nel nuovo formato extra da 48 nazionali in cui il peso dell’Europa è rimasto comunque inferiore al reale valore calcistico che esprime, rendendo difficile passare dall’imbuto delle qualificazioni nel Vecchio Continente e paradossalmente più semplice altrove dove la qualità non è nemmeno comparabile. Questa è la fotografia attuale che ora è congelata anche per i prossimi anni.
L’Arabia Saudita è diventata una super potenza dello sport mondiale e non a caso sta inseguendo anche la vetrina del grande tennis. Non ha convinto l’ATP ad assegnare le Finals dopo Torino, resteranno in Italia, ma lavora per avere almeno un Master 1000 e ha messo in mostra la sua potenza organizzativa nel torneo ad inviti da 6 milioni di dollari vinto da Jannik Sinner nel mese di ottobre al cospetto degli emiri. Ha avuto un gran premio di Formula Uno, accoglie diverse competizioni calcistiche di leghe europee, compresa la Supercoppa Italiana del prossimo gennaio con un contratto da 23 milioni di euro a stagione per quattro anni. Lavora con il Cio per i Giochi degli E-Sport, organizza match di pugilato e tornei di golf. Tutto in nome di una strategia di diversificazione dei propri business, fin qui legati unicamente alla produzione di petrolio. E certamente anche in nome di un riposizionamento della propria immagine agli occhi del mondo.
L’assegnazione all’Arabia Saudita non piace per ovvi motivi anche a chi si batte per il rispetto dei diritti umani. L’opposizione critica è stata ampia e trasversale. Preventiva, seppure senza ottenere risultato. Un coro di no ad alta voce da parte di associazioni (Amnesty International), attivisti climatici, tifosi e calciatori. Addirittura 130 giocatrici avevano messo nero su bianco la richiesta alla Fifa di bloccare il processo di assegnazione del Mondiale ai sauditi e di interrompere i legami con la compagnia petrolifera Aramco. Tutto inutile.