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Industria: la crisi del Made in Europe

Istantanee di un crepuscolo. In Grecia, l’ultimo bagliore della Yioula Glassworks si è spento. La storica vetreria ha cessato la produzione, segnata dall’inevitabile chiusura decisa dagli investitori portoghesi di Ba Glass, che dal 2017 ne detenevano la proprietà. La motivazione è senza appello: il calo della domanda di vetro, unito all’impennata dei costi, ha reso insostenibile proseguire l’attività. La fornace si è raffreddata per l’ultima volta, lasciando un vuoto nel panorama industriale greco.

Dall’altra parte del Mediterraneo, in Italia, il gruppo turco di elettrodomestici Beko Europe ha annunciato lo stop per gli stabilimenti di Siena e Comunanza (An), con la perdita di 1.935 posti di lavoro e un piano di ridimensionamento che tocca anche Cassinetta (Va) e il centro di ricerca e sviluppo di Fabriano, sempre nelle Marche. In Germania il gruppo siderurgico Thyssen manderà a casa 11 mila dipendenti, mentre Shell e Bp si preparano a ridurre significativamente le operazioni nelle raffinerie di Wesseling e Gelsenkirchen. Nel settore dell’auto, la Volkswagen affronta sfide colossali, con costi del lavoro nettamente più alti rispetto ai competitor europei e un piano da 17 miliardi di euro in tagli. Le ipotesi sul tavolo includono chiusure di stabilimenti e un congelamento degli stipendi. Intanto Ford si prepara a sopprimere quattromila posti di lavoro in Europa e Bosch ha annunciato 5.550 licenziamenti, la maggior parte dei quali in Germania.

Persino in un settore come l’alimentare, attualmente in buona salute, chiuderà la storica fabbrica di Santa Vittoria d’Alba (Cn), già produttrice del Cinzano e oggi di altri liquori. La multinazionale Diageo, che ne è proprietaria, ha deciso che gli «impianti sono obsoleti». Risultato: 349 dipendenti a casa nel giugno 2026.

IL FANTASMA DELL’UNIONE

«Uno spettro infesta l’Europa: lo spettro della deindustrializzazione» avverte l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). Gli ultimi dati parlano chiaro: a settembre 2024 la produzione industriale è calata del 2 per cento rispetto al mese precedente e del 2,8 per cento rispetto all’anno precedente. Dal 2019, la Germania ha perso oltre il 9 per cento della sua produzione industriale, mentre la Francia e l’Italia hanno registrato rispettivamente un calo del 5 e del 3,5 per cento. I livelli produttivi sono ancora inferiori a quelli pre-pandemia.

Questo mentre gli Stati Uniti si preparano a registrare una crescita industriale dell’1,9 per cento nel 2024 e la Cina dovrebbe segnare un incremento del 5,5 per cento. L’Europa, schiacciata tra Usa e Asia, fronteggia una tripla crisi: climatica, energetica e industriale. La ripresa post-Covid e la guerra in Ucraina hanno innescato un’esplosione dei prezzi del gas, con costi che restano ancora oggi 2-3 volte superiori rispetto a Stati Uniti e Cina. Settori ad alta intensità energetica, come chimica, acciaio e vetro, sono i più colpiti, con chiusure permanenti e delocalizzazioni che alimentano la fuga dall’Europa. La recessione industriale colpisce con durezza anche i Paesi dell’Est, come Romania, Repubblica Ceca e Bulgaria, strettamente legati all’industria automobilistica tedesca. Secondo uno studio dell’Istituto sindacale europeo, il settore manifatturiero dell’Ue ha perso 853 mila posti di lavoro dal 2019, un dato che riflette la difficoltà del comparto a mantenere competitività.

Oltre al costo dell’energia, che secondo l’Ispi resta il principale responsabile della crisi, un secondo fattore fondamentale è la competizione con la Cina. Inizialmente vista come un mercato di opportunità, Pechino si è trasformata in un concorrente temibile, scalando le catene globali del valore e sottraendo quote di mercato ai produttori europei, soprattutto nel settore automobilistico. Pesa poi l’assenza di stimoli fiscali significativi. Italia e Francia, gravate da un elevato debito pubblico, non possono permetterseli, mentre la Germania, nonostante un debito in calo, rimane frenata da rigide posizioni ideologiche. Infine, i produttori europei soffrono di una domanda interna lenta e di una carenza di manodopera qualificata.

NELLA «TERRA DI MEZZO»

Senza un cambio di rotta, l’industria del Vecchio continente rischia di perdere ulteriormente terreno sui mercati globali, mettendo a repentaglio la sua posizione come potenza manifatturiera. Il tempo per agire è sempre più ridotto, e la posta in gioco non è solo economica, ma anche politica e sociale. Mario Draghi, ex presidente della Bce ed ex premier italiano, ha lanciato un monito severo alla Commissione nel suo famoso rapporto: l’Ue è in ritardo rispetto a Stati Uniti e Cina e rischia di imboccare «una lenta agonia» senza interventi decisi. Il rapporto Draghi evidenzia come l’industria europea sia concentrata su tecnologie mature, con un potenziale limitato di innovazione. Nel 2021, le aziende europee hanno speso in ricerca 270 miliardi di euro in meno rispetto alle controparti statunitensi. Mentre i settori tecnologici guidano gli investimenti in ricerca e innovazione negli Usa, in Europa predominano ancora le case automobilistiche, rimaste prigioniere di una certa arroganza teutonica ancorata all’endotermico: mentre le case tedesche truccavano i motori per difendere a tutti i costi il diesel, non si accorgevano che la Cina, primo mercato mondiale, spingeva il settore verso i veicoli elettrici, dove gli europei sono rimasti indietro.

Del resto, segnala Draghi, nonostante l’Europa vanti ricercatori e imprenditori di talento, le normative frammentate e restrittive bloccano il passaggio dall’innovazione alla commercializzazione. Questo porta molte startup del Vecchio continente a trasferirsi all’estero, soprattutto negli Stati Uniti: tra il 2008 e il 2021, quasi il 30 per cento degli «unicorni» (nuove aziende il cui valore è superiore a un miliardo di euro o dollari) ha spostato la propria sede dal Mediterraneio oltre l’Atlantico. Con la rivoluzione dell’intelligenza artificiale alle porte, l’Europa rischia di rimanere indietro nelle tecnologie di punta. Per evitare di essere confinata alle «industrie di mezzo» del passato, il continente deve sbloccare il proprio potenziale innovativo, integrando le nuove tecnologie nei settori esistenti e investendo in ricerca e innovazione. Questo sarà cruciale per rilanciare l’economia e riconquistare una posizione di leadership globale.

SETTORI CRUCIALI IN CRISI

Il comparto automobilistico, pilastro dell’economia europea, vive un momento drammatico. Rappresentando il 6,1 per cento dell’occupazione complessiva dell’Ue, con 13,8 milioni di posti di lavoro diretti e indiretti, e impiegando 2,6 milioni di persone nella produzione, soffre di un calo di competitività. I costi di produzione nell’Ue sono circa il 30 per cento superiori rispetto a quelli cinesi, complicando ulteriormente la posizione delle case automobilistiche alle prese con la transizione energetica e con le multe miliardarie che incombono sulle loro teste dal prossimo anno a causa dei nuovi limiti alle emissioni di CO2.

Secondo Francesco Zirpoli, economista dell’Università Ca’ Foscari e direttore del Centre for automotive and mobility innovation, «finora le evidenze empiriche mostrano che al ritardo tecnologico e di prodotto dei produttori europei si è affiancato un trend alla delocalizzazione in Europa dell’Est e in Nord Africa delle produzioni europee e al generale impoverimento delle condizioni dei lavoratori dell’Europa dell’Est e del Sud». Per Zirpoli «si può effettivamente parlare di fallimento della politica industriale del continente che ha prodotto l’incremento delle disuguaglianze e la perdita di potere d’acquisto dei lavoratori dell’industria dell’auto, oltre che un incremento complessivo delle emissioni di CO2».

Il ceo di Renault, Luca De Meo, ha denunciato in una lettera aperta che un’auto di segmento C prodotta in Cina costa fino a settemila euro in meno rispetto a un modello europeo equivalente. Inoltre, dall’Unione «ogni anno vengono introdotti da otto a dieci nuovi regolamenti». Norme sempre più stringenti che hanno portato a un aumento del peso medio delle auto del 60 per cento dagli anni Novanta, penalizzando i modelli di massa e favorendo il segmento premium. Secondo De Meo la delocalizzazione ha già causato la perdita del 40 per cento dei posti di lavoro in Paesi come Francia e Italia.

La crisi dell’automotive si riflette su quella dell’acciaio, con una produzione europea scesa del 30 per cento dal 2008 e quasi 100 mila posti di lavoro persi in 15 anni. L’associazione Eurofer avverte che l’industria è al peggior punto dalla crisi del 2009, aggravata da sovraccapacità globale, alti costi energetici e bassa domanda. Senza interventi rapidi, le ambizioni di decarbonizzazione dell’Ue entro il 2030 saranno irrealizzabili.

Anche il comparto degli elettrodomestici è in difficoltà, con un calo del 20 per cento nelle vendite nel 2023. La ritirata di aziende come Beko dall’Italia evidenzia un settore sempre più colpito da dumping e concorrenza globale. L’associazione Applia segnala che il mercato unico frammentato, normative stringenti e forti costi di produzione stanno mettendo in crisi i 130 stabilimenti europei, che danno lavoro a oltre un milione di persone. Intanto, lavatrici importate dalla Cina sono vendute a prezzi irrisori, come dimostra un modello proposto a soli 85 euro. La chimica, quarto settore manifatturiero continentale, occupa direttamente 1,1 milioni di persone e ne coinvolge 3,5 milioni nell’indotto. Tuttavia, la sua quota di mercato globale è crollata dal 28 al 13 per cento in vent’anni. Nel 2023, l’industria ha subìto il contraccolpo della crisi energetica e della debolezza economica tedesca, con extracosti normativi ed energetici che penalizzano la competitività. Per quanto riguarda la plastica, la produzione «made in Ue» è scesa dell’8,3 per cento nel 2023, mentre a livello globale cresce del 3,4 per cento. L’industria, che genera 365 miliardi di euro di fatturato con 1,5 milioni di addetti, vede la sua quota di mercato mondiale ridotta dal 28 per cento nel 2006 al 12 per cento. Molti impianti chiudono o vengono ceduti a investitori stranieri, come dimostra l’acquisizione della tedesca Covestro da parte della Adnoc di Abu Dhabi.

RALLENTARE IL GREEN DEAL

Le principali associazioni industriali d’Europa (Confindustria, la francese Medef e la tedesca Bdi) hanno lanciato l’allarme: l’Europa rischia una deindustrializzazione sempre più grave e un declino strutturale. È quanto emerge dalla bozza di un documento stilato in occasione del vertice trilaterale tra le tre organizzazioni. Gli industriali evidenziano come la crisi di competitività stia trascinando verso il basso l’intero sistema economico continentale, aggravando un trend già visibile da anni. Le organizzazioni degli imprenditori sottolineano la necessità di un intervento deciso della nuova Commissione europea, chiedendo un cambio di marcia entro i primi cento giorni di mandato. Senza una svolta concreta, la situazione potrebbe peggiorare ulteriormente.

I leader industriali propongono un programma annuale per ridurre il gap con gli Stati Uniti. Tra il 2010 e oggi, il Pil pro capite negli Usa è cresciuto da 48.374 a 85.373 dollari, mentre nell’Ue è passato da 32.966 a 42.443 dollari soltanto, un divario che si sta ampliando. Le politiche americane, tra cui tagli fiscali, deregulation e dazi sui manufatti europei, hanno attirato capitali e rafforzato il vantaggio competitivo Usa in settori chiave come tecnologie di punta, piattaforme digitali e intelligenza artificiale.

Il primo blocco di proposte degli industriali riguarda il Green deal. Gli imprenditori chiedono di abbracciare un approccio tecnologicamente neutrale nella riduzione delle emissioni, evitando scelte dirigiste come il bando totale dei motori endotermici. Secondo loro, tutte le tecnologie e i carburanti a basse emissioni dovrebbero essere autorizzati. Gli Ett (sistemi di scambio di emissioni), adottati solo dall’Ue, andrebbero riformati per non penalizzare le industrie energivore, mentre il Cbam (meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere) rischia di aumentare i costi per le imprese europee anziché proteggerle.

Poi gli industriali invocano una profonda «deregulation» per alleggerire il peso burocratico sulle imprese europee. Dal 2019, l’Ue ha emanato circa 13 mila atti normativi, contro i tremila degli Stati Uniti, i quali stanno ulteriormente semplificando la propria legislazione. Si chiedono a una revisione significativa di regolamenti e direttive che impongono costi finanziari e amministrativi sconosciuti alle aziende americane e cinesi.

Altro punto cruciale è il recupero degli investimenti in ricerca e sviluppo. L’Europa destina attualmente il 2,2 per cento del Pil a questa voce, contro il 4 per cento verso cui si avviano gli Usa. L’obiettivo è aumentare questa quota al 3 per cento entro un anno, incentivando le filiere industriali a investire in innovazione attraverso agevolazioni mirate e sgravi sui costi normativi e dell’energia, che oggi riducono i margini e limitano le capacità di investimento delle imprese.

Infine, gli industriali sottolineano l’urgenza di creare un’Unione bancaria, non in futuro ma entro un anno. Un mercato finanziario integrato è fondamentale per sostenere la crescita industriale e favorire gli investimenti privati, elemento decisivo per rilanciare la competitività europea. Queste proposte rappresentano un richiamo diretto a Bruxelles: senza interventi tempestivi e strutturali, il nostro continente rischia di perdere il suo ruolo di potenza industriale globale.

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