Muro contro muro, accuse reciproche, ancora nessuna certezza su movente e colpevoli. Continua a tenere pericolosamente banco, tra Kosovo e Serbia, il grave attacco di matrice terroristica avvenuto sabato scorso non lontano da Zubin Potok e dal grande bacino artificiale di Gazivoda.
Nell’attacco, ricordiamo, ignoti hanno fatto saltare in aria con esplosivi un tratto dell’importantissimo canale “Ibar-Lepenac”, che fornisce acqua a mezzo Kosovo, inclusa la capitale Pristina e soprattutto garantisce il raffreddamento delle obsolete centrali a carbone che danno energia al Paese. È stato un atto terroristico pianificato da Belgrado, l’immediato j’accuse lanciato a caldo dalle autorità del Kosovo, si tratta di una “false flag”, un’operazione progettata per screditare una volta per tutte la Serbia, la replica di Belgrado.
Da sabato, nulla è cambiato – anzi, le accuse sono salite di tono, segnale che la situazione è tutt’altro che stabilizzata. A gettare benzina sul fuoco è stato da una parte il premier Albin Kurti, che ha sostenuto che le autorità di Pristina hanno sequestrato, nel corso delle indagini sull’attentato, anche «armi ed esplosivi», oltre che «insegne militari». Di che provenienza? Si tratterebbe di simboli collegabili «alle forze armate serbe e russe», ha aggiunto, specificando poi che, tra gli arrestati – poco meno di una dozzina, finora, ma otto sono già stati rilasciati – ci sarebbero membri della cosiddetta «Protezione civile», un’organizzazione pseudo-paramilitare attiva nel nord del Kosovo, «sponsorizzata» da Belgrado. Di certo, l’attacco terroristico voleva «mettere in ginocchio il Kosovo, aveva obiettivi devastanti», tra cui quello di provocare «una catastrofe umanitaria», ha fatto eco il ministro kosovaro della Difesa, Ejup Maqedonci.
Ancora più dura la ministra degli Esteri di Pristina, Donika Gervalla, che ha evocato scenari ucraini. Un attacco «così grave contro l’infrastruttura di uno Stato democratico non c’era ancora mai stato in Europa al di fuori dell’Ucraina», ha affermato Gervalla, che ha apertamente accusato la Serbia di copiare «le strategie russe». D’altronde, ha ricordato Gervalla in un’audizione alla commissione Esteri dell’Europarlamento, Belgrado avrebbe fatto lo stesso nella fallita, sanguinosa operazione di Banjska, l’anno scorso, architettando un «intervento militare in un Paese a forte presenza Nato». E sarebbe immischiata anche nell’ultimo episodio, ha assicurato la presidentessa Osmani, che ha svelato ieri di aver consegnato le prove al neo-presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa.
Completamente opposta, come da previsioni, l’altra campana, quella della Serbia. Serbia che è «completamente estranea» all’attacco registrato al canale, ha ribadito ancora una volta il ministro degli Esteri serbo, Marko Djuric, che ha fatto appello alla comunità internazionale ad avviare un’inchiesta indipendente e imparziale sul caso, condotta magari dalla missione Nato in Kosovo, la Kfor, e dalla missione europea Eulex. Se l’attentato è «stato compiuto da qualcuno con passaporto serbo e si trova in un territorio sotto il nostro controllo, sarà subito arrestato, ma non c’è alcun segnale in questo senso», ha aggiunto il presidente serbo Aleksandar Vučić. Che ha ancora una volta assicurato che Belgrado è pronta a cooperare a una indagine internazionale.
Indagine che serve e quanto prima, ha suggerito anche l’ambasciatore Usa in Kosovo, Jeffrey Hovenier, dopo un vertice del “quintetto” (Usa, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia) con Kurti. Aggiungendo però che, al momento, non si possono indicare con certezza i responsabili. —