Cominciamo dalla dedica: “A mio padre/valente invalido/invitto/invincibile”. Non è un padre qualsiasi. È quel Walter Pedullà che ha imperato sulla critica letteraria e sulla cultura italiana per più di mezzo secolo, sia dalla cattedra alla Sapienza, sia dalla direzione delle pagine culturali dell’Avanti e da quella delle numerose riviste fondate (fra cui L’Illuminista e Il nuovo Caffè illustrato) o nei prestigiosi incarichi ricoperti (dalla Presidenza della RAI a quella del Teatro di Roma). E che ha scritto decine di volumi tanto sapienti quanto spiazzanti, dalla monumentale Storia della Letteratura italiana, insieme con Nino Borsellino, alle ponderose introduzioni alle opere di Stefano D’Arrigo, di cui è il massimo esegeta, a Il vecchio che avanza, fino all’ultimo, la sua toccante autobiografia: Il pallone di stoffa – ma l’elenco completo prenderebbe parecchie pagine.
Sarebbe stata poco elegante questa precisazione iniziale se l’autore di Certe sere Pablo fosse ancora “figlio di…”, ma egli si è affrancato da tempo dalla condizione di partenza, inevitabile quando si ha un padre “ingombrante”, qual è stato – oggettivamente – il suo. Gabriele è ormai un affermato (anche accademicamente, essendo professore ordinario a Roma Tre) studioso, con al suo attivo una serie di libri di grande impegno (dall’innovativo Atlante di letteratura italiana, insieme con Sergio Luzzatto, a In pieno sole, uno dei saggi più originali sul cinema, a riprova della sua vastità di interessi), nonché – e questo lo rende realmente quasi un unicum – un ottimo scrittore, alla sua quarta prova narrativa, riuscita come le precedenti, malgrado si tratti, questa volta, di un progetto estremamente ambizioso. E il fatto che egli abbia voluto dedicarlo al padre invitto/invincibile, è la testimonianza, inequivocabile e commovente, della sua doverosa riconoscenza, ma anche della consapevolezza della raggiunta “indipendenza”. L’omaggio alla straordinaria figura paterna non si esaurisce peraltro nella dedica: affiora qua e là lungo il racconto, con accenti sempre teneramente complici. Come quando ricorda i ventimila volumi della biblioteca di casa (ventimila erano allora, negli anni settanta, oggi credo abbiano superato i cinquantamila…, numero a cui si avvicina pure la biblioteca dell’erede).
Restando ai dettagli (quelli nei quali si annida, com’è noto, il diavolo o il padreterno, a seconda delle preferenze…), le epigrafi non sono mai banali o consuete, ma sempre sorprendenti. Dalla prima, di Marouck, “Ah, sappiatelo, noi siamo di quelli che ricordano”, una vera dichiarazione programmatica, all’ultima, tratta, con sprezzo del pericolo…, da un inno nazi-rock, “Vi chiederete perché mai perché mai”, perfetta conclusione per un testo che pone domande alle quali è difficile, se non impossibile, dare risposte (definitive). L’autore ha ritenuto anche di dovere fornire, in una nota, i riferimenti bibliografici, quasi volesse precisare che il suo è, sì, un romanzo, ma è anche una rigorosa ricostruzione storica. Gli incipit, infine: “astuti” come il titolo. Diretti, senza preliminari. “C’è anzitutto quella foto”: così inizia Portolano degli anni bisestili. Ed ecco che nel lettore si accende il desiderio di vederla, “quella foto”. E Pedullà non lo delude, descrivendola accuratamente, minuziosamente, facendola diventare una sorta di riassunto visivo della storia che si accinge a ricostruire. “… ah, Pablo, Pablo!”: questa è l’invocazione iniziale del secondo capitolo il cui titolo è anche quello del volume, Certe sere Pablo. Come fosse l’eco, a distanza di centocinquant’anni, del Whitman di “Oh Captain, Oh my Captain!”, ripresa, facendone il filo conduttore del film, da Peter Weir nel suo L’attimo fuggente (sicuramente presente all’appassionato cinefilo Pedullà). Più tradizionale, per dire così, l’avvio di E’ stato un soffio, in linea peraltro con la narrazione, più distesa, della conclusione della trilogia: “Fu un soffio, un lampo, velocissimo, di un tempismo davvero micidiale.”
Ho detto prima che il suo caso, di un critico bravo cioè che sia anche un bravo scrittore, è quasi un unicum: chiarisco. Ho in altre occasioni insistito sul fatto che i critici letterari, pure sommi, quando decidono di scendere personalmente in campo, diventando essi stessi romanzieri o novellieri, partoriscono per lo più delle opere mediocri. Probabilmente perché applicano alla lettera tutto ciò che hanno sempre predicato, dimenticando che prerogativa, essenza, dell’arte, è proprio la rottura delle regole, non la loro osservanza… Uno fra tutti, George Steiner, critico eccelso, autore di opere fondamentali, da Le Antigoni a Vere presenze, a Grammatiche della creazione, ma anche di un romanzetto che non so per quale dannato istinto di autoflagellazione ha voluto pubblicare, di cui, per una forma di rispetto verso il grande critico, ometto il titolo, sperando che l’increscioso infortunio sia stato dimenticato… A proposito di non osservanza delle regole, un esempio illustre, il più illustre della nostra letteratura. Quale editor oggi, in base agli standard in voga, accetterebbe di pubblicare un romanzo come I promessi sposi? Risponderebbero a un attonito Manzoni che la vicenda dei due giovani è del tutto marginale nell’economia del romanzo, che nel corpo della narrazione vi sono una serie di saggi che andrebbero pubblicati separatamente (cosa in parte fatta dallo stesso autore), che i personaggi per così dire principali (Renzo e Lucia) appaiono sfocati, rispetto per esempio ai cattivi (Don Rodrigo e l’Innominato, o anche il Griso), mentre emerge come vero protagonista Don Abbondio (la tesi, illuminante, è di Sciascia). Infine, l’autore pone in bocca a una semianalfabeta un pezzo di un’eleganza formale e di un lirismo che a stento si adatterebbe a una Vittoria Colonna o a Ipazia… Mi riferisco alla famosa “aria” che tutti quelli delle generazioni fino a Pedullà abbiamo imparato a memoria, l’Addio ai monti sorgenti dall’acqua ed elevati al cielo… Ebbene, dopo averla inserita nel contesto del romanzo, l’ineffabile e spiritoso Don Lisander lascia cadere lì una frase che farebbe inorridire i famigerati editor da me richiamati: “questo è quello che più o meno pensava la povera Lucia…”. Malgrado tutto ciò, o grazie a tutto ciò, l’opera di Manzoni resta un capolavoro!
Non è di facile lettura questo volume di Pedullà dal titolo vagamente tabucchiano, o anche calviniano, che utilizza cioè l’artificio retorico della “sospensione” della frase, suscitando così immediata curiosità: che fa certe sere Pablo? Così come che diavolo sostiene Pereira? E che succede se una sera d’inverno un viaggiatore?
Il risvolto di copertina sostiene… che lo scrittore, “esponente dell’ultima generazione che ha vissuto almeno uno scampolo delle battaglie ideologiche di allora … non ha saputo o voluto prenderne congedo, come se quella esperienza, tanti anni dopo, continuasse a infestare una casa vuota.” E’ riduttivo e fuorviante come quasi tutti i risvolti di copertina…, sia se scritti dai vari Calvino, Vittorini, Ginsburg, Pavese, Pampaloni (per citare solo alcuni celebri responsabili di collane, spesso capaci di errori di valutazione epocali, vedi la ormai leggendaria bocciatura de Il gattopardo), sia anche quando stilati dagli stessi autori (la maggior parte), anzi soprattutto in questi casi, dato che, se un’opera è valida, trascende le intenzioni di chi l’ha fatta, il quale è perciò poi il meno indicato a parlarne. Intendiamoci, è esatto il riferimento al contesto in cui si muovono gli attori della vicenda ricostruita, ma si tratta soltanto dello scheletro, della struttura, entro la quale si iscrive quello che in realtà è il sofisticato camuffamento, con le vesti di romanzo (non prendo in considerazione l’ipotesi che si tratti di tre racconti lunghi o romanzi brevi), di un vero e proprio memoir. Una curiosità: perché il ricordo di quelle battaglie (ideali, utopistiche e perciò fondamentali) dovrebbe “infestare” il presente? L’estensore del risvolto non aveva un altro termine a disposizione?
Tornando alla forma scelta da Pedullà, è evidente che non ha voluto scrivere un’autobiografia, che si sarebbe iscritta nel solco di altre celebri e riuscite operazioni, come il Ritratto dello scrittore da giovane di Joyce o il Ritratto dell’artista da cucciolo di Dylan Thomas. Immagino lo abbia fatto per pudore. Pedullà appartiene a una categoria di intellettuali, per formazione, cultura e anche carattere, per i quali il tempo ha ancora, fra le altre, la funzione di scandire le tappe dell’esistenza. Fino a mezzo secolo fa, per esempio, un grande attore non avrebbe mai interpretato Macbeth prima dei quarant’anni o Re Lear prima dei settanta, se non ottanta, e nessuno, che fosse un intellettuale, un artista, uno statista o un condottiero avrebbe scritto un’autobiografia in età adolescenziale. La puntualizzazione non è casuale: oggi vi sono attori imberbi che pretendono di incarnare personaggi dalla lunga e tormentata esistenza e ventenni “senz’arte né parte” (come si sarebbe detto una volta) che ritengono di poter/dover scrivere le loro memorie…, vivendo fra l’altro in un’epoca in cui il tempo si è rallentato, non contratto. Un ventenne di un secolo fa era un adulto, un cinquantenne di oggi è ancora in fase di apprendistato… Pedullà no. E’ un cinquantenne d’antan…, se posso dire così. Continua a dare valore al tempo e perciò alla memoria.
Ed ecco allora la scelta di creare una “gabbia” storica, puntuale peraltro, ben documentata, all’interno della quale inserisce i suoi personaggi. Con un’ulteriore “torsione” stilistica che dà un ritmo particolare al suo modo di narrare. Non usa mai la prima persona (il cosiddetto “io narrante”). Utilizza tre registri diversi per le tre sezioni del volume. Nella prima colloquia con se stesso chiedendosi continuamente se ricorda i fatti che poi rievoca. Nella seconda si rivolge a un ideale interlocutore, come se volesse confrontare l’esito delle sue riflessioni con qualcun altro; anche qui agendo en travesti: il romanzo (che in effetti è anche un’autobiografia) è anche un romanzo epistolare (su un solco che il sapiente Pedullà conosce bene, da Rousseau a Chesterton, per dirne solo i più noti), ma senza che l’espediente venga dichiarato. Il fatto che non ci siano le risposte alle domande che l’autore pone discende proprio dall’impostazione di fondo. Egli non le ha. O non è convinto di quali potrebbero essere. Oppure rifiuta quelle che la impietosa attualità gli pone di fronte. Nella terza, infine, usa la terza persona: in apparenza un testimone delle vicende passate che ormai possono sciogliersi in pura narrazione.
Da qui il fascino di una scrittura che si muove contemporaneamente su vari livelli, intrecciandoli abilmente fra loro.
E volendolo considerare soltanto un romanzo, che tipo di romanzo è? Senz’altro un Bildungsroman, un romanzo di formazione. La sua. Quella di chi è arrivato in tempo a vivere i postumi di un periodo cruciale della seconda metà del Novecento e vuole metabolizzarlo nel solo modo che uno scrittore può fare, vale a dire ricreandolo nella propria narrazione. Più che un riferimento letterario per un’operazione del genere, me ne viene in mente uno cinematografico, The Dreamers di Bartolucci (ho già ricordato l’escursione di Pedullà nel campo specifico con quel formidabile saggio, In piena luce, che non so perché viene costantemente omesso nella bibliografia dell’autore). Nel film, ambizioso anch’esso, il grande regista ha voluto tracciare l’identikit di una generazione formata (forgiata) dall’esperienza del sessantotto parigino. Pedullà intende fornire il ritratto di quella generazione a distanza di mezzo secolo, vale a dire mettere in evidenza le conseguenze di quegli “anni di apprendistato”. Non c’è dubbio che il sentimento principale, se non l’unico, che traspare dalla lunga, puntuale, coinvolgente rievocazione, è la disillusione. Che non diventa “pessimismo della volontà”, ma presa di coscienza dello scarto esistente fra gli ideali e la realtà. Vi è peraltro un continuo andirivieni fra l’ieri e l’oggi, a volte con semplici accenni, come quando si lascia sfuggire – infatti la frase è fra parentesi – “le manifestazioni degli studenti, chi sa perché, cascano sempre di venerdì”, che non può non riportare immediatamente al presente dove, non più quelle degli studenti, ma le manifestazioni dei lavoratori, specie di quelli addetti ai servizi pubblici (cioè che servono al pubblico) continuano a seguire la tradizione…
La ricostruzione degli anni in cui, per dirla col poeta, Pedullà ardeva d’inconsapevolezza nelle estese pianure, cercando, con letture accanite e la “militanza” (termine e pratica ormai desuete, quasi incomprensibili), di riempire di contenuto, di valori, quelle estese pianure, è rigorosa e documentata, sia con i riferimenti alla macrostoria, sia alla microstoria, questa per lo più attraverso le frasi di anonimi street-writer lette sui muri delle varie capitali europee.
Malgrado il… cilicio che Pedullà si è imposto, volendo attenersi strettamente al metodo costruttivo scelto, senz’altro originale ed efficace, ma molto condizionante, la vena schiettamente narrativa emerge di continuo, con punte a volte di vero lirismo.
Unica riserva o meglio timore, che il secondo obiettivo che l’autore si proponeva, quello cioè di far conoscere ai giovani di oggi, “a chi non c’era”, la temperie di quel periodo cruciale della nostra storia recente, sia difficilmente raggiungibile. Un esempio: quando l’autore scrive che “una domenica mattina, mentre vi accapigliate sul lettone, a una tua domanda esplicita tuo padre si sente in dovere di spiegarti qualcosa dei due stati che adesso guerreggiano in un altro continente. Hanno quasi lo stesso nome, e questo già fa ridere: sembra uno scherzo”, crede davvero che coloro che non hanno vissuto quegli avvenimenti e che per la maggior parte non leggono i giornali, ma si informano, quando lo fanno, soltanto sui social, non hanno alcuna curiosità per il passato, vivendo essi in un immanente presente, possano capire di cosa si tratta? E anche se per ipotesi riuscissero a farlo, che significato avrebbe per loro? Ma non poteva fare diversamente. Non essendo una rievocazione storica, né una vera e propria autobiografia, il che gli avrebbe consentito maggiore spazio per soffermarsi e riflettere su certe vicende, la strada scelta era quasi obbligata.
Resta la vasta platea di quelli che c’erano (che c’eravamo) per i quali l’affresco dipinto da Pedullà, un vero e proprio retablo, con i pannelli che mettono a fuoco le varie prospettive della storia narrata, costituisce non solo una sorta di illuminante promemoria, ma anche l’occasione per riflettere sulla propria vicenda personale, su ciò che è stato fatto, ma soprattutto su ciò che doveva essere fatto e che (per mancanza di lucidità? Di coraggio? Per l’assenza di una guida carismatica?) non è stato fatto.
L'articolo “Certe sere Pablo” di Gabriele Pedullà: un libro che celebra il valore del tempo, della memoria e della militanza sembra essere il primo su Secolo d'Italia.