Mai banale, capace di tenerti incollato alla sedia raccontando aneddoti che hanno fatto la storia del basket. Guardare gli occhi di Bogdan Tanjevic che si illuminano mentre riannoda i fili dei tanti episodi che hanno tratteggiato una carriera infinita e inimitabile è come perdersi dentro a un film.
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Ricordi lucidi, episodi raccolti in una vita spesa sui parquet di tutta Europa ma che sembrano di ieri tanta è la precisione con cui Boscia li riporta. Non ti alzeresti mai da quella sedia, ascoltare una leggenda e poterla raccontare è un privilegio. Personaggio schietto, sincero, diretto a costo di pagarne le conseguenze. E' stato così per un'intera carriera, lo è ancora: non a caso presidenti, allenatori e giocatori gli riconoscono questa come la sua più grande qualità. In carriera ha vinto tutto. Ha cominciato con la coppa Campioni il 5 aprile del 1979 con il suo Bosna e non si è più fermato. Ha vinto lo scudetto in Italia, in Francia (a Villeurbanne) e in Turchia (al Fenerbahce), con la nazionale ha vinto un argento europeo con la Jugoslavia, un oro con l'Italia e un altro argento con la Turchia. In Italia da una vita, dopo essere cresciuto nella sua Sarajevo, ha trovato a Trieste il suo porto sicuro.
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Tanjevic cosa le è rimasto, oggi, del suo essere jugoslavo e qual è la parte di lei che invece sente affine al modo di essere italiano?
«Ancora oggi, a 77 anni compiuti, mi sento di nazionalità Sarajevese. La malinconia dei ricordi a volte mi assale, ho nostalgia della mia giovinezza, delle strade e dei posti in cui sono cresciuto. Posti che considero ancora casa e in cui torno spesso e sempre volentieri. Adoro però anche l'Italia, l'ho sempre vista come un grande paese e la ritengo la migliore nazione in cui vivere. Oggi casa mia è a Trieste anche se, parlando di questa città, un rammarico c'è».
Ce ne vuole parlare?
«Non ho imparato a parlare il dialetto- scherza- E' successo qui ma anche nei quattro anni vissuti a Caserta. Ricordo Oscar-Schmidt, un brasiliano capace di parlare un napoletano fantastico, io non ci sono mai riuscito».
Ripercorrendo una carriera infinita, qual è la tappa che ritiene più bella e significativa?
«Il più grande miracolo è stato senza dubbio quello del Bosna. Un'esperienza che poi ho cercato di ripetere in tutte le tappe successive della mia carriera. Presa in A2, a 24 anni, con tanti giocatori di talento ma che non avevano mai giocato nella massima serie. In otto anni siamo arrivati a vincere la coppa dei Campioni in finale contro un'avversaria che era stata la mia fonte di ispirazione, la Ignis di Aza Nikolic. Per anni avevo sognato di giocare una finale contro Varese, assieme ai Boston Celtics erano la mia squadra ideale».
Cosa pensa di aver lasciato alla pallacanestro?
«Dopo quarantasei anni da capo allenatore mi auguro di essere riuscito a lasciare un ricordo positivo nei giocatori che ho allenato. Li ho sempre considerati come dei figli, spronandoli e cercando di tirar fuori il massimo da ognuno di loro. Essere un maestro, per me, significava questo. Riuscire a essere una guida sul campo ma non solo, l'obiettivo era cercare di educarli e proteggerli nel loro percorso di crescita».
Qual è il giocatore di maggior talento che ha allenato?
«Tanti, ma il ricordo più bello è legato a Michael Jordan. Siamo stati tre giorni insieme in Valtellina e l'ho allenato per una intera partita prima dell'amichevole che poi giocammo a Chiarbola. Era il 1985 ed era già il miglior giocatore al mondo. Emanava carisma e uno charme incredibile, uno di quei personaggi che avrebbe potuto fare carriera in qualunque campo».
Il rammarico più grande?
«Non essere riuscito a portare a Trieste Drazen Petrovic. Era già tutto apparecchiato, avevo parlato con i genitori, lui era entusiasta dell'idea. Pronto a lasciare il Real Madrid e sposare il progetto Stefanel. Purtroppo retrocedemmo e non se ne fece nulla, peccato perchè credo che con me avrebbe potuto giocare ancora meglio»
Il giocatore più simpatico che ha allenato?
«Bella domanda- sbuffa -. Non ci crederai ma ti dico Rolando Blackman. Era sempre sorridente, mi rilassava parlare con lui. Quando andai ad allenare la nazionale della Turchia mi convinse a prenderlo come assistente. Non fui capace di dirgli di no».
Cos'è oggi per Tanjevic la pallacanestro?
«Ho finito di allenare nel 2017, oggi la vivo da spettatore e preferibilmente in tv. Seguo l'Eurolega anche se, in generale, devo dire che il basket non mi piace più come una volta. Si tira troppo da tre punti, il palleggio arresto e tiro che ha fatto la fortuna di Michael Jordan e di grandi del passato come Kicanovic e Dalipagic non lo vedi praticamente più. Seguo la provocazione del mio professore, Dan Peterson, che suggeriva di eliminarlo. E invece, oggi, parlano di introdurre il tiro da quattro punti».
Nel 1999 vinse l'Europeo lasciando a casa Gianmarco Pozzecco, oggi la nazionale è nelle mani del Poz. Che rapporto ha con Gianmarco?
«Ne ho parlato molte volte, alla vigilia di quell'Europeo avevo bisogno di giocatori che giocassero con e per la squadra, Pozzecco in quel momento della sua carriera aveva appena vinto lo scudetto a Varese e si sentiva invincibile. Era fortissimo, ma non era il tipo di play-maker che mi serviva per quella nazionale. Quando ha smesso di giocare e ha cominciato ad allenare in Sicilia l'ho chiamato. Poz, gli ho detto, adesso sei dall'altra parte della barricata e potrai capire la mia scelta. Abbiamo un buon rapporto».
Tralasciando la pallacanestro, chi sono gli allenatori che ha ammirato e che possono essere stati fonte di ispirazione?
«Sicuramente il mio amico Ratko Rudic e, assieme a lui, non posso non nominare Julio Velasco. Un personaggio carismatico, mi spiace non avere mai avuto il piacere di incontrarlo. Parlando di calcio mi viene in mente Rinus Michels, l'olandese inventore del calcio totale e poi quello che considero il giocatore e poi il tecnico in assoluto più geniale, Johan Cruijff. Con il talento che si ritrovava credo che, in qualunque sport, sarebbe stato un fuoriclasse»
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