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Andrea Illy: «Il caffè è un rito umanista e vitale»

Ha lasciato quasi tutto com'era: i mobili in legno con i loro echi di terra, la mappa del mondo che si prende un’intera parete e una miniatura dell’Illetta, l’invenzione del nonno Francesco. La macchina che ha cambiato il modo di preparare l’espresso: «Abbassando la temperatura, migliorando il sapore, introducendo la crema». Un’innovazione che è germogliata in un’azienda. Andrea Illy è grato ai suoi ricordi e ci abita dentro: lavora ancora nell’ufficio del padre Ernesto, che è rimasto qui, fermo in un ritratto davanti alla sua vecchia scrivania. «L’ho messo io apposta, così può controllare quello che faccio. “Stai attento”, sembra dirmi ogni giorno» scherza il presidente dell’impresa di famiglia, terza generazione di cultori del caffè. «Penso che mio padre possa essere soddisfatto di me» aggiunge subito dopo: «Sono un figlio d’arte, chimico come lui. Eravamo complementari, abbiamo fatto uno splendido lavoro di squadra. Continuo a portarlo avanti».

Quel lavoro è un’eccellenza italiana riconosciuta a livello internazionale, che serve 10 milioni di tazzine al giorno ed è presente in 140 Paesi: «Nel settore siamo la marca più globale al mondo».Tutto è partito, e ancora comincia, dai sobborghi di Trieste, in uno stabilimento un po’ orgogliosamente analogico che odora di cucina alla mattina presto e dove all’ingresso, subito dopo la reception, s’incontra un elemento inconsueto, ma il più coerente con lo spirito del luogo: il bancone di una caffetteria. La sede ospita anche un master rigoroso dedicato all’economia dei chicchi, laboratori in cui si sperimenta con le essenze più esotiche, stanze per lunghe e approfondite degustazioni (come per il vino, c’è una sputacchiera), mentre almeno ogni mezz’ora qualcuno si avvicina agli ospiti a proporre un macchiato o un ristretto. «Il caffè è un rito semplice e universale. È la bevanda della cultura e della modernità: continua a svolgere lo stesso ruolo da quattro secoli» ricorda Andrea Illy, che ha l’eleganza di non offrire l’ennesima tazzina, consapevole della maratona liquida sostenuta dal cronista di Panorama nelle ore precedenti all’intervista, a cui si arriva straordinariamente vigili.

Si è spiegato perché il caffè non passa di moda? Tanti altri consumi di massa sono tramontati fino a estinguersi.

Prima si bevevano quattro birre al giorno: l’acqua era spesso infetta e doveva fermentare, altrimenti si rischiava una dissenteria. Erano tutti ubriachi. Poi è arrivato il caffè e ha reso le persone più loquaci, facilitando lo scambio e le relazioni. Non ha mai smesso, perché funziona: aumenta la creatività, si trova sulla scrivania di programmatori, professori e artisti. È trasversale. Ha svegliato il mondo.

L’ha riempito di energia.

Non mi piace il termine, mi sa tanto di reazione chimica, di un calcio assestato dalla caffeina. Per questa ragione non facciamo sponsorizzazioni di tipo sportivo. Il caffè è una bevanda esperienziale, non funzionale. Non dà lo scatto, ma il pensiero.

Allora, come ne racconterebbe l’effetto?

Secondo me, l’attributo che meglio lo riassume è la vitalità. Un suo consumo moderato è associato alla longevità, ha proprietà antiossidanti. Non ha calorie, è delizioso. Il nostro espresso, in particolare, è un elisir, un condensato di aroma e cremosità.

E qui entra in gioco il made in Italy, il timbro tricolore su un prodotto internazionale.

In Illy siamo stati i progenitori dell’espresso, con la prima macchina a pressione. Oltre a essere più concentrato, è più raffinato. Assume una componente estetico-esperienziale che l’ha reso uno dei riti irrinunciabili dello stile di vita italiano. È un elemento dall’enorme valore intangibile.

Abbastanza al riparo da ingerenze e appropriazioni estere?

Per niente, non è stato possibile, nonostante io abbia provato in tutti i modi. Siamo 800 aziende in questo mercato, sono mancate le condizioni. Per tutelare una proprietà intellettuale occorre un approccio collegiale, un’unanimità che non c’è stata.

Con quali conseguenze?

Quello legato al caffè è diventato l’«italian sounding» più utilizzato al mondo. È tutto un fiorire di prodotti come «barista», «latte», «cappuccino». Non è accaduto con il lessico tedesco oppure turco. Si vede che la cultura italiana era la più evocativa, la più attrattiva.

Perché non c’è stato lo spirito di squadra necessario a proteggere la sua straordinarietà?

Come popolo ci riusciamo solo con il calcio. Se si tratta di essere compatti a livello della stessa industria, non succede. Siamo antropologicamente un Paese di individualisti, fatichiamo a perseguire l’interesse generale. Lo inseguiamo se è l’unico modo per difendere le nostre priorità, sennò non ci pensiamo nemmeno.

Il settore non ha comunque subito contraccolpi, anzi…

È vero, si è creato un mercato molto più ampio di quanto noi italiani saremmo stati in grado di generare da soli. Siamo piccoli dal punto di vista della forza economica e demografica per poter andare alla conquista del mondo. In compenso, un’intesa a livello globale è stata trovata su un altro fronte, persino più urgente.

Si riferisce alla partnership pubblico-privata, da poco promossa dal G7 a Pescara, per aiutare i piccoli agricoltori nei Paesi a basso reddito.

Non è più differibile. Entro il 2050 avremo la metà delle terre coltivabili a caffè che non lo saranno più. Vanno investiti 10 miliardi di dollari il prima possibile. La responsabilità è dei Paesi consumatori, perché quelli produttori non hanno le risorse adatte per sostenere la spesa.

Come impiegare i fondi?

Per esempio, nell’agricoltura rigenerativa, che noi stiamo già adottando per ripristinare la fertilità del suolo e la sua biodiversità, evitandone il sovrasfruttamento. Devo dire che ci sta dando grandi soddisfazioni.

Lei è ottimista o catastrofista? Siamo in tempo per salvare il pianeta?

Se portiamo a un giorno i 3,6 miliardi di anni trascorsi da quando esiste la vita sulla Terra e poi prendiamo gli anni in cui abbiamo fatto casino, diciamo gli ultimi 150, questi corrispondono a una manciata di millisecondi. È il battito d’ali di un’ape. Ce la faremo, non ci estingueremo. Saremo lenti all’inizio, ci attende una strada accidentata, ma a un certo punto andremo veloci. Com’è accaduto per la digital economy.

Sembra evidente che lei non voglia rimanere spettatore.

È un modo di essere, è la «fillysofia». I profitti non sono un fine per un’impresa, ma un mezzo per investire nella qualità della vita dei suoi portatori d’interesse. Sono molteplici, a cominciare dai 200 mila esercizi pubblici e negozi che propongono il prodotto secondo lo spartito del nostro modello di servizio. Li chiamo i dannati dell’eccellenza, se non lo fossero venderebbero qualcosa di fungibile. Poi ci sono i collaboratori, non risorse umane, ma talenti. E i fornitori dei chicchi che lavoriamo ed esaltiamo: senza la materia d’origine. non andremmo da nessuna parte. Infine, le comunità, i vivai dei talenti del futuro.

Mancherebbero gli azionisti.

Sono a sostegno dell’impresa, sono qui a dare anziché prendere tramite impegni, rinunce, saperi che si tramandano da generazioni. Mio padre mi ha inculcato bene nella testa che il vero padrone è il consumatore. Siamo al suo servizio. Se qualcosa va storto e consuma meno, chiudiamo i battenti.

Al di là degli insegnamenti di suo padre, cosa la ispira?

Leggo per quattro ore al giorno, anche di notte se è necessario. Pure in questo papà è stato maestro: quella che ho qui dietro è una piccola parte della sua libreria. Voglio aprire il mio cervello, imparare cose nuove per tradurle in pratica.

Un’opportunità sarebbe mettere tali conoscenze al servizio della politica. Accetterebbe un incarico pubblico?

Quella carriera l’ha fatta mio fratello (Riccardo, già sindaco di Trieste e presidente del Friuli-Venezia Giulia, ndr). Se sei un politico parli solo con metà della gente, io sono apolitico e parlo con tutti. E poi un imprenditore fa politica implicitamente, quello che persegue a livello aziendale ha un impatto su milioni di persone.

Per questa trasversalità fra scienza e pensiero, fra teoria e pratica, l’hanno definita un chimico umanista. Ci si ritrova?

Carlo Cipolla scriveva che ci sono quattro tipologie di persone: i banditi, gli sprovveduti, gli stupidi e gli intelligenti. A me interessa rientrare nella categoria degli intelligenti, che fanno il bene di sé stessi e degli altri.

Come ci riesce?

Non lesino risorse per cercare il meglio possibile e sono contento di quanto sto realizzando. Mettiamola così: sono un chimico umanista felice.

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