di Marcello Cecconi
Vent’anni fa a Kiev, esattamente in questi giorni di novembre del 2004, ci fu un’enorme mobilitazione di massa in Piazza Indipendenza con striscioni e sciarpe arancioni. Prese il nome di “rivoluzione arancione” e Julija Tymošenko, la filoeuropeista imprenditrice del gas, divenne il simbolo del pacifico movimento. I filoeuropeisti erano scesi in piazza in seguito all’accusa di brogli nel ballottaggio delle elezioni presidenziali ucraine tra il filorusso conservatore Viktor Janukovyč che l’aveva spuntata sul più europeista Viktor Juščenko. I manifestanti ottennero la cancellazione della vittoria di Janukovyč, nuove elezioni che videro prevalere Juščenko e alcuni aggiustamenti costituzionali.
Ma i nuovi tempi non arrivarono, quell’arancione ispirato al colore delle foglie autunnali di ippocastano che incorniciano ancora i lati della più grande arteria di Kiev, Chreščatyk, si sbiadiva nell’arco di un paio di anni e l’oligarchia possente e contorta tornava a gestire affari e politica. Juščenko, l’europeista, dopo innumerevoli crisi di Governo, e della coalizione che lo sosteneva, fu costretto a scendere a compromessi con il vecchio avversario filorusso Janukovyč in cambio di una fragile promessa di filo-occidentalismo. Janukovyč così si ripresa la scena e, nel 2010, la presidenza di un Paese in ebollizione ma ancora geograficamente integro.
Quando il governo, a novembre 2013, sotto la pressione economica della Russia non ratificò gli accordi che l’avrebbero avvicinata all’Europa, i filoeuropeisti di Kiev e di altre città dell’Ucraina scesero in piazza per protestare energicamente contro i politici al potere. Iniziò l’Euromaidan, una rivoluzione più cruenta di quella arancione che ebbe l’epilogo il 20 febbraio 2014 a Kiev, con più di cento vittime fra i manifestanti e una decina fra i poliziotti. Causò anche una crisi politica di difficile soluzione e consigliò la fuga in Russia di Janukovyč.
Proprio in quelli stessi giorni del febbraio 2014, durante la crisi politica a Kiev, iniziava l’occupazione militare della Crimea da parte di Putin e il mese successivo si tenne il referendum discusso, e non riconosciuto dall’Occidente, di annessione della stessa alla Federazione Russa. Gli “omini verdi”, truppe speciali russe con tenuta verde senza nessun segno di appartenenza, avevano preparato il terreno all’arrivo dell’esercito regolare in Crimea e, i mesi successivi, sostennero concretamente la rivolta dei filorussi delle Repubbliche del Donbass che, sull’esempio della Crimea, proclamarono la separazione dall’Ucraina attraverso referendum approssimati e mai riconosciuti da nessuna autorità terza.
Fu proprio in quella nella primavera-estate del 2014, che ebbe inizio il conflitto con continui scontri tra l’esercito regolare ma disordinato del Presidente ucraino Poroshenko, appena scelto a guidare il Paese e i filorussi separatisti dell’Ucraina orientale e meridionale. Quest’ultimi, erano armati e sostenuti direttamente dalla Russia che interveniva anche con propri uomini. L’accordo di Minsk per il cessate il fuoco, del settembre successivo, sotto l’egida dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) non fu mai rispettato e il conflitto continuò crudele e perverso negli anni, dimenticato anche dall’Europa sotto gli ultimi morsi della recessione economica. Una guerra che, prima del 24 febbraio 2022, era già costato più di quattordicimila vittime e trentaquattromila feriti tra militari e civili oltre a un milione e mezzo di sfollati.
Ad aprile 2019 arrivava Zelensky, il filoeuropeista e populista attore comico amato dai giovani, che fece cappotto alle elezioni presidenziali. Tentò alcune riforme che incisero positivamente sull’economia nazionale e altre contro gli oligarchi, promesse in campagna elettorale, che anche se molto meno incisive sono state sufficienti aconvincere l’Ue ad aprire la borsa dei prestiti. La Russia non tollerava più la presenza sui suoi confini di un paese ex federato, che si avvicinava ai governi di stampo occidentale e alla Nato e il 24 febbraio 2022, otto anni dopo il vero inizio, il conflitto si ampliava con l’Europa, quasi sorpresa, che sembrava accorgersene solo allora.
Oggi Zelensky, l’Europa e gli Usa da un lato e la Russia dall’altro non vogliono mollare. Quasi quattromila, non mille, i giorni di guerra, anche se la propaganda, arma diabolica che negli ultimi mille giorni è stata al centro delle operazioni, cerca di nascondere le enormi perdite subite. A settembre scorso The Wall Street Journal, citando fonti di intelligence, ha scritto che circa un milione tra ucraini e russi sono stati uccisi o feriti dal 24 febbraio 2022, gran parte soldati appartenenti a entrambi gli schieramenti seguiti poi dai civili soprattutto ucraini.
E mentre il mondo intero è in sospensione per l’effettivo ritorno in campo di Trump, Zelensky spara razzi a lunga gittata sulla Russia con l’autorizzazione di un Biden alla “fine dei suoi giorni” e Putin che minaccia, più di prima, l’uso del nucleare. Nello stesso tempo, come in un teatrino dell’assurdo, Zelensky si lascia intervistare da Fox News, l’emittente vicina al tycoon che comanderà gran parte del mondo da gennaio, e dice: “Non possiamo perdere decine di migliaia di persone, la penisola potrebbe essere recuperata attraverso la diplomazia”. Sono parole che per la prima volta escono dalla bocca del presidente ucraino e, forse, nonostante le minacce di un Putin decisissimo, tra qualche mese potremmo vedere smontare i lanciarazzi e premiare gli eroi di una guerra persa da tutti, Ucraina e Russia in testa.
Il futuro potrebbe essere quello di un’Ucraina dimagrita in Eu e nella Nato divisa da un muro dalla Crimea e da una parte orientale e meridionale. Era già accaduto con la Germania.
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