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L’intervento. Il dibattito sulla “fiamma”: i simboli, la politica e la destra che verrà

Voglio scrivere freddo, anche se a caldo, perché considero il logos, sempre utile, positivo. Bello. In un tempo che ha bisogno, a sinistra ma pure a destra, di riflessioni accese e pacate passioni. Ecco: i simboli politici si rispettano. Tutti. Come le appartenenze. Quello glorioso – si lo fu glorioso per più generazioni e milioni di persone, perché non dirlo – della falce e martello, disegnato da Renato Guttuso, artista grande, prima noir poi rouge: sappiamo da dove viene, no? Su quali rivolgimenti tragici venne issato nel secolo breve? Nei vessilli ufficiali di quali partiti e Stati stranieri c’è tuttora ? Ma da qui nessuno si è mai sognato di applicargli la progressista “cancel culture”. Anzi: la foto della premier Meloni insieme all’empatico pci-sauro Sposetti alla mostra-memoria di Enrico Berlinguer, segnala rispetto.

Quei simboli a sinistra e a destra 

Osservo: prima d’ora, nessuno, aveva insistito più di tanto sulla simbolica come patente di democrazia; soprattutto, nessuno aveva mai chiesto l’epurazione di un simbolo di partito come patente per guidare il Paese. Sul lontano, ma così vicino, finire del secolo scorso, Walter Veltroni, si accomodò nella stanza dei bottoni da vice premier targato Pds; che la falce e martello l’aveva, eccome, ai  piedi della Quercia. Massimo D’Alema, varcò il portone di Chigi, quando aveva appena mollato il vecchio logo, nel passaggio da Pds a Ds: l’albero ancora ne portava le tracce alle radici. Pochi anni dopo, Fausto Bertinotti, leader che il comunismo voleva rifondare, si trasferiva con quel marchio “bolscevico” addosso alla presidenza della Camera: la terza carica dello Stato. Il che per dire ? La fiamma – che nulla c’entra col fascismo – è immagine plurale. Se proprio volete avvistarla in luoghi sentimentali della destra, andate all’araldica dei Carabinieri; o dei Vigili del Fuoco. Non al Ventennio. Se, invece, vogliamo un’analisi seria, sforziamoci. Le storie politiche sono una ricchezza: compongono, con le loro visioni e divisioni, la nostra trama comune. Di italiani di destra e di sinistra.

Icona di consenso e di rispetto 

Le culture politiche sono dinamiche. Le loro “forme” cambiano. Come le antropologie dei leader. Che non rimangono prigioniere del tempo che le ha precedute. E neanche delle sue figure. Il popolo della destra – come il popolo della sinistra – nel dopoguerra italiano, é stato una carovana in movimento. Lo é tuttora. Ha avuto e avrà fasi, tappe, svolgimenti. Cambiamenti. Una storia complessa, ma che si é sempre situata nel grande fiume delle istituzioni. E della lealtà ad esse. Non ne é mai uscita. Con contributi importanti: dalla battaglia contro la legge-truffa di Scelba e la mala riforma di Renzi, all’adesione a Nato e Comunità europee; alla stagione di governo di Alleanza nazionale dove occupò, con dignità e riguardo, gli Esteri, la Difesa, le Politiche comunitarie, il Commercio estero; fino alla scelta occidentale e di interesse nazionale di Fdi in favore dell’Ucraina, vittima di una guerra di aggressione da parte di Putin. Prove e controprove di ciò che nel discorso pubblico gli altri chiedevano. Persino in surplus. Non solo “intra moenia”, ma soprattutto nelle sedi extra. Dove siede il “giudice” più severo: la Comunità internazionale con le sue istituzioni. Da Bruxelles e Strasburgo a Francoforte e Washington, la destra parlamentare non ha mai subìto cartellini rossi. Non ne ha subiti l’icona della fiamma, in cui hanno creduto milioni di italiani, che ha accompagnato questo tragitto. Con la sua prima grande e poi più piccina presenza; testimone, con le sue varianti, di un percorso dentro il sistema politico: italiano, europeo, mondiale. Dritto. Senza mai sbandamenti o assalti ad alcunché.

Un dibattito aperto e civile sulla rive droite

È una traditio di idee; oppure, se più piace ai fedeli della storia lineare, un’evoluzione. Che, dopo la svolta di Fiuggi – la Bad Godesberg della right all’italiana – oggi è sboccata nella formazione dei conservatori italiani ed europei. Fino ad esprimere, per la prima volta, la guida della Nazione. E del G 7: il concerto massimo delle democrazie stabilizzate presieduto – con estimazione diffusa, globale –  da Giorgia Meloni. E a sedere nel governo dell’Unione, con Raffaele Fitto, vice di Ursula von der Layen. Attraverso la strada maestra del consenso, antipode dell’eversivo. Abbiamo visto spesso da sinistra la pretesa alla scomunica dell’altrui bandiera. Iraconda. Senza Ragione. Un assalto strumentale, un’arma impropria di opposizione; ad essa – merito di Salvatore Merlo sul Foglio – ora succede un dibattito aperto e civilissimo – che c’è, certo che c’è sulla rive droite – ma vero, di veri pro e contro; come deve essere. Dico la mia; così: la premiership di Giorgia Meloni é figlia della nostra storia, del nostro tempo. E della nostra Repubblica. Dove il rito delle elezioni legittima chiunque col placet del popolo. Lo fa, ora con gli uni, ora con gli altri.  Assegna vittorie e sconfitte; promuove persone e colori; ma che cambiano, secondo le fasi che la vita pubblica imprime a se stessa. È l’alternanza. È la cultura bipolare, che fa vincere tutti. A turno. Mai nessuno per sempre. È il cosmo politico contemporaneo; dove il vero symbolum ormai sono esseri in carne e ossa. E sangue: sono i leader. Non più gli emblemi passati. Piaccia o no, ormai è così. Simbolo ha nella sua radice – dicevano i Greci – il “syn bàllein”: il tenere insieme; che si invera nelle elites.

Il “cammeo” e il nomen del capo

Come ci hanno insegnato Pareto, Mosca, Michels. Sono loro a fare stare unite le comunità del corpo elettorale. Oggi, molto più di una volta, hanno questa responsabilità. Gli stemmi “storici” – tutti – ci ricordano solo il percorso fatto: dagli albori della Repubblica ad oggi. Dove insistono, sono tuttora datori di senso. Lo è ancora la fiamma, ormai piccolo “cammeo” sotto il nome lungo e largo del leader: un raffronto che dice tutto. E dà una prima risposta. Finché ci saranno, i simboli della politica vanno rispettati. Nei partiti di massa – quali tuttora sono (soltanto) Fdi e Pd, che ha piazzato nella tessera l’effigie di Berlinguer – l’iconografia politica alimenta ancora le identità collettive. Vi si ispira anche l’arte, il cinema. Fornisce risorse emotive alle basi sociali; ricorda la biografia pubblica e intellettuale dei gruppi dirigenti. Continui a farlo. Senza drammi o forzature, dentro il discorso pubblico: non si tema la fine. La quale arriverà; presto o tardi, concluderà un ciclo, forse il ciclo della destra di governo; quando sarà, quando si compirà la sequenza della sua storicizzazione.

L’eredità della destra dopo il tempo della fiamma 

Oggi la cultura politica forse ne ha ancora bisogno. Forse. Oltre primitive propagande e agguati mediatici, misura partenze e approdi delle sue forme-partito e dei capi che le hanno rette e che le reggono; i quali, nel fluire intrecciato di vecchio e nuovo, sono umane rappresentazioni della nostra democrazia; la fiamma oggi resiste e procede ancora in parallelo al nomen Giorgia. Milioni di elettori, di italiani che credono nella sacralità del voto, li hanno promossi “insieme”; dal basso. Li hanno mandati “insieme” a governare; facendo a meno di veti e di remore. Ci sarà, presto, un altro tempo; per scegliere e sciogliere. Intanto, il dibattito continui; sono giuste e salutari le intime e visibili interrogazioni: senza paure, accompagnino la destra in cammino. La quale ha ora una più reale responsabilità: dopo la “chiamata” al governo del Paese, quale eredità lascerà di questo passaggio? Quale patrimonio, quali segni del comando affidatole, dopo quasi ottant’anni di vita democratica?  Quale eredità, dopo la fiamma, dovrà restare di lei alle future generazioni della destra? Soprattutto: della sua “prima volta” cosa di bello e di grande – anche di simbolico, appunto – sarà capace di consegnare alla storia nazionale, alla comunità degli italiani?

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