Il governo italiano è a caccia di fondi per finanziare la legge di Bilancio del 2025. E tra le misure per reperire questi soldi c’è stato l’ampliamento – scritto nero su bianco all’interno del testo bollinato, ora all’attenzione del Parlamento per le eventuali modifiche e l’approvazione – della platea dei soggetti che dovranno pagare la Digital Service Act. Dunque, se le cose non saranno modificate (per esempio, seguendo i princìpi inseriti all’interno di un emendamento di Forza Italia), anche televisioni, radio, PMI e giornali online si troveranno a pagare la stessa percentuale di tasse delle aziende cosiddette Big Tech: un’aliquota del 3% sui ricavi (non sugli utili). Ma perché il governo si è mosso in questa direzione? Un indizio ci arriva direttamente da Washington, dove gli USA non hanno mai nascosto di essere contro il sistema della web tax.
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Come riporta l’agenzia di stampa Reuters, da mesi il governo americano ha inviato solleciti all’Italia affinché cambiasse la Digital Service Tax. Anzi, proprio di abrogarla in quanto “discriminatoria”. La soglia dei “ricavi annuali globali superiori a 750 milioni di euro e ricavi derivanti da servizi digitali forniti in Italia superiori a 5,5 milioni di euro in un anno solare”, secondo Washington, è un chiaro obiettivo di colpire solamente le aziende americane. Fin dal 2020, anno di entrata in vigore di questa imposta nel nostro Paese.
Il governo italiano non sembra aver intenzione di procedere nella direzione dell’abolizione di questa tassa, soprattutto perché deve attendere di capire – concretamente – quali saranno i piani della nuova amministrazione statunitense guidata da Donald Trump. Ma proprio in quest’ottica, come spiega la Reuters, deve essere letto quell’ampliamento della platea delle aziende soggette alla Digital Service Tax italiana. Non una cancellazione dell’imposta, ma un’azione che andrebbe a rendere la norma meno discriminatoria per le grandi aziende del Tech che hanno sede proprio negli Stati Uniti. Colpire tutti, in termini di aliquote, allo stesso modo. Una sorta di “contentino” che – qualora la norma non fosse modificata prima dell’approvazione – costerà caro alle PMI e a tutte quelle imprese editoriali che non hanno i numeri di Big Tech, ma saranno costrette a pagare sui ricavi e non sugli utili.
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