«Se il servizio psichiatrico non fosse stato chiuso e la persona inviata al Pronto soccorso, oggi molto probabilmente staremo piangendo un collega»: Roberto Lezzi, direttore del Dipartimento di Salute mentale dell’Usl 6, non ha dubbi.
L’uomo che sabato 2 novembre si è aggirato armato di coltello per il centro di Cittadella fino a raggiungere l’ospedale in cui, una volta trovata chiusa la Psichiatria, ha raggiunto il Pronto soccorso dove ha aggredito e ferito sanitari e carabinieri, avrebbe potuto uccidere. Ed erano gli psichiatri il suo obiettivo, quelli a cui, come lo stesso trentaquattrenne ha confessato davanti al gip, voleva fare del male.
Lezzi lancia l’allarme perché oggi i servizi psichiatrici si trovano troppo spesso a dover gestire pazienti autori di reato con comportamenti violenti, senza alcuna misura di sicurezza per gli operatori. E tanti professionisti stanno lasciando.
Dottor Lezzi, sono passate ormai due settimane da quell’evento: come avete reagito al grave episodio?
«Quanto accaduto non fa che confermare il difficilissimo clima in cui stiamo operando. Le aggressioni sono sempre più frequenti in tutto il contesto nazionale e stanno causando la fuga di personale dai nostri servizi: se continua così il sistema non può tenere, i Dipartimenti di Salute mentale crolleranno in termini organizzativi e su questo c’è la totale inconsapevolezza della società e delle istituzioni.
Lo ha ammesso lo stesso aggressore: se avesse trovato gli psichiatri avrebbe fatto loro del male, oggi piangeremo un collega. Come si fa a lavorare serenamente quando succedono queste cose?».
Le aggressioni nei confronti del personale sanitario stanno registrando un aumento e i reparti psichiatrici insieme ai Pronto soccorso sono i più esposti. Come lo spiega?
«Per quanto riguarda la Psichiatria, premesso che una piccolissima parte di pazienti con gravi psicosi diventa autore di reato, è evidente che da quando sono stati chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari - scelta giusta - si è vista una estensione del concetto di non imputabilità per i soggetti autori di reato con un generico disturbo mentale.
Si è abbassata la soglia attingendo in parte dall’ambito del disadattamento sociale e del comportamento criminale e della tossicodipendenza.
Se prima i pazienti venivano sottoposti a misure detentive psichiatriche, oggi queste misure sono dirottate nelle Rems, strutture psichiatriche regionali che non hanno personale di polizia e hanno molti meno posti letto e le comunità terapeutiche dei Dipartimenti di Salute mentale delle Usl che non sono però dedicate agli autori di reato, tanto meno a persone in cui prevale il comportamento aggressivo».
Quindi vi trovate nei reparti e nei Centri di Salute mentale autori di reati violenti senza alcun tipo di sorveglianza dedicata?
«C’è l’idea che siccome l’autore di reato ha una patologia psichiatrica la violenza debba essere gestita e risolta in ambito sanitario, come se le cure potessero di punto in bianco far sparire la volontà del soggetto, come se il sanitario avesse il potere miracoloso di far sparire l’intenzione violenta.
Così soggetti violenti arrivano nelle nostre strutture dove il personale è per lo più femminile e dove ci sono altri utenti che non solo vengono esposti a un rischio ma anche privati di un clima sereno che compromette il buon andamento delle attività cliniche».
C’è anche un problema di ordine giuridico?
«Sicuramente sì, perché la capacità di intendere e di volere è una convenzione giuridica, non un dato oggettivo. Ci sono impulsi, come vendetta, rabbia, violenza che non è detto coincidano con la malattia. Si allarga a dismisura il concetto di non responsabilità personale nei cittadini».
Cosa è necessario per rimediare a questa situazione?
«Servono più strutture specifiche come le Rems, e deve migliorare l’integrazione con le forze dell’ordine perché non possiamo operare senza protezione. Ma soprattutto deve essere rivisto il concetto di imputabilità anche restringendo la possibilità di chiedere la perizia psichiatrica. Va combattuta l’idea di poter spostare in ambito psichiatrico la repressione dei reati nei confronti di persone con disturbo di personalità o abuso di sostanze.
Costoro sanno benissimo cosa fanno, sanno determinarsi nelle loro azioni, non hanno bisogno di cure, non in prima istanza. Altrimenti diamo patenti di impunità a chiunque. Sia chiaro che non sto dicendo che non dobbiamo essere coinvolti, anzi, ma che non dobbiamo essere gli unici e da soli. Il paradigma “violenza uguale malattia” mentale non può reggere. Stiamo perdendo personale perché c’è paura di lavorare in queste condizioni».
Si sta facendo qualcosa?
«A livello istituzionale nazionale sembra non esserci consapevolezza del problema, anche se lo stiamo urlando da tempo. In Veneto il problema è all’attenzione della Regione e abbiamo iniziato un percorso di condivisione per instaurare un rapporto con l’Autorità giudiziaria per concordare le modalità di lavoro. Il problema va affrontato insieme. Se le cose non cambieranno il sistema imploderà. E non possiamo permettercelo visto che stiamo assistendo all’incremento dei giovani con importante disagio psichico i quali hanno bisogno di ambienti adeguati e risorse dedicate per seguire percorsi psicoterapeutici, anche in rete con altri servizi, per una risposta sul piano sanitario ma anche sociale».