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L’elezione di Trump e le preoccupazioni globali in un’America divisa e in profonda crisi

La vittoria di Donald Trump è una tragedia globale. Se le scelte dell’elettorato non rischiassero di avere una portata planetaria, potrei anche fregarmene dell’esito delle presidenziali e liquidarle come un problema tutto americano. Perché non v’è dubbio che saranno un problema: pur ostentando fiducia nella resilienza dei valori americani, l’intellighenzia è concorde nel preconizzare tempi cupi sul piano interno, con una progressiva erosione delle libertà individuali e una crescente sperequazione economica.

Su una cosa si trovano d’accordo i repubblicani tanto quanto i democratici: l’America non è mai stata divisa come in questi giorni e Donald Trump non sembra il candidato ideale a fare da paciere tra due modi sempre più contrapposti di vedere le cose. La sua vicinanza ai super-ricchi capitanati da uno sbruffone apertamente razzista come Elon Musk – che rischia di diventare un pezzo grosso della sua amministrazione – è un manifesto chiarissimo.

D’altro canto, nonostante gli Stati Uniti non siano il mio paese, credo che una riflessione sulle preoccupanti falle del loro sistema sia necessaria. L’America – come gli USA amano farsi chiamare – è una democrazia che fa acqua da tutte le parti. Lo dimostrano, per esempio, le sacche di maggioranze bulgare che spingono questo o quel partito a non candidarsi alle elezioni locali per anni, certi di una sconfitta schiacciante. Insomma, a “darla su”, come verrebbe da dire.

Non sarei saltato sul carro del vincitore nemmeno se avesse prevalso Kamala Harris, candidato debole di un partito democratico debolissimo in un’America quanto mai fragile nelle sue certezze, un tempo granitiche. A giudicare da quanto si legge e sente sulla scelta fatta dall’elettorato americano, pare che il nuovo sport nazionale italico sia spararla grossa, rivendicare la grande capacità di azzeccare il pronostico o giustificarsi laddove si sia previsto l’esito  opposto. Dalle roboanti e a dire il vero imbarazzanti analisi di una larga fetta degli osservatori politici emerge un campanilismo partitico patetico: alla vigilia del voto, durante un programma di Sky, un esponente di Fratelli d’Italia si è ripromesso di andare in brodo di giuggiole nel veder rosicare un’ospite di idee non esattamente repubblicane nel momento in cui fosse stata annunciata la vittoria di Trump. Insomma, un siparietto che neanche Camillo e Peppone…

Kamala Harris era una candidata debole? Certo, debolissima, praticamente invisibile per tutta la prima parte della presidenza Biden e, comunque, zavorrata da una condotta non esattamente “progressista” durante il suo mandato di procuratrice generale della California, con una mano piuttosto pesante nei confronti dell’immigrazione clandestina, lei che non può certo dirsi una WASP. Per giunta in un’America che qualcuno, a bassa voce, sostiene paghi ancor oggi il debito – se preferite, l’onta – della doppia presidenza Obama e, dunque, della presenza di un nero nell’immacolata Casa Bianca. Un’America che non ha ancora finito di fare i conti con la macchia indelebile della schiavitù.

Sarà una banalità, ma la Harris era e resta una donna di sangue misto. Era debole, anzi debolissimo, pure Biden, della cui condizione geriatrica qualcuno all’interno del Partito Democratico era certamente a conoscenza. E, ancora una volta, l’incapacità atavica – non solo americana, considerata la piega presa dalla Sinistra italiana negli ultimi anni – delle frange progressiste di proporre politiche autenticamente dalla parte dei deboli, rispondendo così alla loro naturale vocazione e contrapponendosi al crescente strapotere dei grandi gruppi di interesse, ha alienato loro il sostegno delle masse crescenti di quei diseredati che un tempo rappresentavano la classe media e ora si sentono privi di rappresentanza: gli USA, ancor più del resto dell’Occidente, hanno visto erodersi il potere d’acquisto di quell’enorme fascia della popolazione la cui forza economica si sta sempre più appiattendo verso il basso. Una ventina di giorni fa, ero nel Sud degli Stati Uniti e una donna, scoprendo la mia provenienza, ha sfoggiato un sorriso splendente e mi ha detto, spegnendo il proprio entusiasmo con una debole smorfia: “Ho antenati italiani e il mio sogno è fare un viaggio in Italia. Non credo di potermelo mai permettere”. Certo, un viaggio in un altro continente non è cosa per tutti sul piano finanziario. Ma l’attuale condizione del paese nel migliore dei casi è quella della mera sussistenza. Sempre che, naturalmente, non ci siano incidenti di percorso: licenziamenti, divorzi, disastri naturali, malattie. Perché è quello l’incubo peggiore dell’americano medio: non essere nelle condizioni di affrontare sul piano finanziario le incognite della vita. Insomma, una famiglia può pranzare in un ristorantino il sabato sera e, magari, andare al cinema. Poco più.

L’americano medio viene mantenuto in uno stato di pericoloso galleggiamento nello stagno dell’ignoranza americana: il livello base di istruzione è sotto i livelli minimi che di norma si presumono da un paese occidentale e ruota esclusivamente intorno alla storia e alla geografia nazionale, liquidando il resto del mondo al ruolo di feudo utile solo a portare ricchezza nei forzieri di Washington. La società è storicamente razzista e sempre più classista, appesantita dal palese paternalismo dei bianchi nei confronti di tutte le altre sfumature razziali. I neri, per contro, tendono all’auto-segregazione e i casi di amicizie o coppie interraziali restano l’eccezione.

Che dire poi dell’oscurantismo rappresentato da una nazione che, pur professando nella Costituzione la stretta divisione tra stato e chiesa, in realtà è terreno di conquista assoluta dell’Evangelismo? Non tutti i ministri del culto, ovviamente, sventolano con orgoglio la bandiera a stelle e strisce, ma poco ci manca. E, a conferma ulteriore che la campagna elettorale dei democratici ha mostrato impulsi masochisti, la questione dirimente intorno a cui ogni battaglia libertaria ha perso slancio è stata quella dell’aborto. La cristianissima America – già, ora quell’aggettivo non spetta più all’Irlanda e nemmeno all’Italia – si è arroccata dietro quel vessillo dirimente, la bandiera di chi si dice pro-vita rispetto a chi viene tacciato di essere anti-vita. Le battaglie per i diritti vanno combattute, certo. E i partiti della Sinistra non possono certo scordarsene. Ma vanno affrontate pure quelle per una sanità per tutti, per la possibilità di far accedere i propri figli a un livello di istruzione più elevato e, prima di ogni altra cosa, per una condizione economica più rassicurante. Trump e i repubblicani l’hanno capito benissimo e hanno come sempre giocato la carta della paura: la paura della dannazione per chi si macchia dell’aborto “infanticida”, il timore di una recessione che non si capisce perché debba per forza accompagnarsi a una vittoria democratica, – considerato il calo della disoccupazione durante il mandato di Biden – quella del classico babau rappresentato dal povero immigrato – sbandierato persino dagli ispanici – e il terrore delle religioni infedeli, a partire dall’Islam.

Qualcuno dice che la mancanza di coraggio dell’amministrazione Biden e della stessa Harris in campagna elettorale nel prendere una posizione più netta in favore della questione palestinese abbia precluso qualche voto a Kamala. Non ne sono certo, ma resto convinto che la sua scarsa apertura in tal senso sia l’ennesimo tassello di un disastro annunciato. C’è chi dice che con Trump ci saranno certamente meno guerre, Non ci giurerei. L’asse Biden/Kamala ha fatto disastri da quel punto di vista, ma a preoccupare non poco è l’imprevedibilità istrionica del neopresidente.

Resta una tristezza profonda nell’assistere a trionfalismi da curva ultras di fronte all’affermazione di un uomo accusato e condannato per molestie sessuali e frodi varie e del tutto incapace di limitare il proprio narcisismo patologico.

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