Inizia male anche il secondo tentativo del governo di trasferire in Albania i migranti provenienti da Paesi ritenuti “sicuri”. Degli otto richiedenti asilo, cinque egiziani e tre bengalesi, sbarcati venerdì mattina al porto di Shëngjin, uno presenta problemi sanitari che lo fanno rientrare nella categoria dei “vulnerabili“, a cui non è applicabile la procedura accelerata per il diniego della protezione internazionale. Pertanto, in base al protocollo firmato col governo di Tirana, l’uomo – soccorso al largo di Lampedusa – dovrà essere immediatamente trasportato in Italia, a Brindisi, a bordo della stessa nave Libra della Marina militare con cui è arrivato sull’altra sponda dell’Adriatico. Nel Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Gjadër, gestito dall’Italia, restano quindi appena in sette, in attesa di sapere se i giudici della Sezione immigrazione del Tribunale di Roma (competente sulle strutture extraterritoriali) convalideranno il loro trattenimento: la decisione è attesa entro 48 ore.
Il mese scorso, le toghe capitoline avevano annullato i provvedimenti relativi ai primi 12 richiedenti asilo trasferiti in Albania, anch’essi egiziani e bengalesi, applicando il principio dettato dalla sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia europea, secondo cui – in buona sostanza – un Paese non può essere considerato sicuro solo in determinate aree territoriali o per determinate categorie di persone, come accadeva per Egitto e Bangladesh: o lo è per tutti, o non lo è per nessuno. Per tutta risposta il governo ha trasformato in legge l’elenco dei Paesi sicuri, prima contenuto in un decreto interministeriale, cancellando le eccezioni previste per gruppi di persone a rischio nei due Stati. Ma non ha funzionato: i Tribunali hanno bloccato l’applicazione della nuova norma, rinviandola alla Corte di Giustizia europea per chiedere un parere sulla sua compatibilità con il diritto comunitario (come a Bologna) o disapplicandola direttamente (come a Catania) sulla base dell’obbligo che ha il giudice di verificare la legittimità della designazione del Paese come sicuro.
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