Donald J. Trump ha compiuto un’impresa che solo la cattiva informazione – la quasi totalità dei media mainstream e dei sondaggisti “a gettone” – non ha visto arrivare. Per la seconda volta. Pigrizia, incapacità o malafede? Poco (ci) importa. Mentre star e starlette di Hollywood, i commentatori con l’eskimo e gli immancabili perdenti di successo del Pd di casa nostra recitavano peana petalosi all’impapabile Kamala Harris contro il fantomatico ritorno (negli Usa!) del fascismo, il popolo americano si stringeva, come non si vedeva da tempo, attorno a una leadership-movimento che può rivendicare una clamorosa vittoria a tutto piano: fra i Grandi elettori, fra l’opinione pubblica, al Senato come alla Camera.
Questo è il risultato dalle tante, troppe, lacerazioni della gestione Biden: disastro in politica estera (fuga rovinosa dall’Afghanistan e due conflitti regionali esplosi sotto i suoi occhi), confini colabrodo, impoverimento cronico della classe media. Ma soprattutto dai democratici non è giunto, in questi quattro anni, alcun messaggio a quell’America profonda e maggioritaria che vuol sentire parlare di difesa di uno stile di vita, di tutela del mercato interno, di promozione della vena industriosa dei padri. Il tutto raccontato, e incarnato, in Elegia americana: la struggente epopea operaia della Rust-belt e del riscatto personale di J.D. Vance. Ecco, se Trump è l’alfa, il suo vice è l’omega: la rigenerazione del fenotipo a stelle e strisce. Che cosa contrapponevano dall’altra parte? La narrazione “californiana” della Harris, aliena ai ceti popolari tanto quanto le dinasty di potere dei clan Obama-Clinton…
A vincere è stata un’idea di America, questa è la novità sostanziale e pedagogica giunta dalle urne, sempre più condivisa e promossa non solo dai bianchi interclassisti dell’entroterra ma dalle minoranze etniche che sono accorse in massa a votare il leader del “Maga” invece che la paladina liberal delle loro istanze. Perché? Perché rispettando le regole – e accettandone i rischi – usufruiscono non solo dei diritti ma anche delle occasioni che il sistema Usa mette a disposizione. Un equilibrio complesso che richiede una parvenza di pace sociale e reciproca fiducia: il contrario del caos e dell’insicurezza generalizzati. Ecco il motivo per cui anche gli afroamericani e i latinos, proprio loro, chiedono con forza una politica che garantisca “per primi” gli americani. Non certo iniezioni di universalismo o astrazioni green che ricadono – guarda un po’ – prima di tutti sulle loro spalle.
Fin qui gli Usa. Poi c’è un messaggio, giunto sempre dalle elezioni per la Casa Bianca, che scavalca i confini. È visibile a occhio nudo infatti l’emersione di una contestazione globale, e non globalista, argine culturale al delirio woke, alla decostruzione delle istituzioni sociali, al nichilismo e alla peggiore censura: quella a targhe alterne. Una contestazione – a maggior ragione dopo l’esplosione della crisi pandemica e dell’invasione in Ucraina – che comprende la critica alla deregulation che ha caratterizzato l’internazionale laburista degli anni ‘90, la fiducia cieca nei riguardi del mercatismo, dell’apertura alla Cina e della globalizzazione dei diritti.
Ecco, questa contestazione – al netto delle enormi differenze storiche e antropologiche – oggi è maggioranza politica nelle due sponde dell’Atlantico. Davanti a questo c’è chi sostiene che il conto per l’Europa sarà “salato”: spiegando che il consequenziale disimpegno americano costerà agli europei maggiori sforzi. Beh, dalle nostre parti questa si chiama autonomia. Esattamente ciò che Giorgia Meloni ripete con forza, da mesi, agli interlocutori (un po’ sordi) di Bruxelles. Difesa, energia, sovranità, cooperazione fra pari nel contesto atlantico: è tempo che l’Europa, invece di creare nuove regole e di accanirsi sulla ragioneria, inizi a fare la propria parte.
L'articolo L’editoriale. Rigenerazione americana: il ciclone Trump che il mainstream non ha visto tornare sembra essere il primo su Secolo d'Italia.