Il lavoro come seconda pelle. Il lavoro e il risparmio come unica possibilità di superamento della soglia di sussistenza minima, non sempre garantita. La fatica agra di tutta la vita lungo il secolo breve che ha prima sfruttato, poi strappato milioni di braccia alla campagna per consegnarle all’industria per qualche decennio, e affidarle infine al terziario e ai servizi.
Un’epopea quella del popolo contadino che Amerigo Manesso coglie in presa diretta attraverso il libro di storia orale “Lavoravamo la terra. Una storia orale del Veneto profondo” (editpress-Istresco, 360 pp, 22 euro) che sarà presentato domenica 3 novembre alle 15. 30 nella chiesa di Morgano, paese teatro della saga dei Dalla Valle, da fine ’800 ai giorni nostri.
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Dalla Valle paradigma di una classe, quella contadina, che a dispetto di gran parte della storiografia si dimostra non mero oggetto nelle mani delle élite, ma soggetto protagonista del proprio destino, seppure spesso incapace di rivolte che pure ci sono state, proprio a Badoere di Morgano nel 1920, quando i contadini organizzati nelle leghe bianche occuparono e poi incendiarono la villa dei conti Marcello, mai più ricostruita e il libro ne dà conto.
Manesso, già direttore scientifico e presidente di Istresco Treviso, porta alla luce uno degli indirizzi che l’istituto di studi storici dibatte, mettendo in discussione i modelli di Gabriele De Rosa e Silvio Lanaro, ovvero che la classe contadina sia stata mero strumento nelle mani dei preti e dei latifondisti.
Manesso dà voce ai 24 figli di Giovanni e Giuseppe Dalla Valle, figli a loro volta del capostipite Giacinto, fittavoli che a cavallo del secolo acquistano a debito una parte del fondo che lavoravano a mezzadria, continuando però a sobbarcarsi altra terra in affitto, nell’unico modo che concepiscono come accessibile per emanciparsi. Il sogno di ogni contadino era “laorar sul meo”.
Un sogno che non è detto consenta la sussistenza, specie in famiglie numerose come i Dalla Valle, 28 persone, impegnate tutte a riscattare pochi ettari di terra per trasformarsi da miserabili a piccoli proprietari. La storia ci viene raccontata attraverso testimonianze di quasi tutti i 24 cugini, raccolte nel corso di vent’anni da Manesso appunto, che di una Dalla Valle, Elda, è figlio, nonché emancipazione vivente.
Testimonianze lucide, ficcanti, prese con tutte le misure e cautele che la ricerca storiografica impone, che ci restituiscono un mondo fatto di fatica, discriminazioni, specie tra primogeniti e figli cadetti, ma soprattutto fra maschi e femmine, quasi sempre relegate al ruolo di semiservaggio dal quale si potevano liberare solamente prendendo i voti o maritandosi il più delle volte con un altro contadino per continuare a fare la vita che facevano da nubili.
Eppure l’orgoglio trasuda in tutte le interviste, l’orgoglio dato dal lavoro indefesso, testardo, muto il più delle volte, ottusamente, anche se solo apparentemente, e fedele.
Un lavoro che si sottomette a un unico patto tra prestatore d’opera e padrone: reciprocità, benefici e/o denaro in cambio di una data quantità e ritmi, che soddisfa entrambi i contraenti.
Una reciprocità che quando il contadino evolve in metalmezzadro, trasferisce in fabbrica, e quando si iscrive o è attivo nel sindacato porta con sé l’identità che 40-50 anni prima aveva nelle leghe. Rivendicazioni e forme di organizzazione, che non sfociavano mai in una vera lotta di classe, semmai in forme di patronage che ritroviamo anche nel collocamento stesso in fabbrica, spesso mediato dal parroco.
Perché ancora una volta è il lavoro il sostegno sicuro e incontestabile. È il lavoro quella seconda pelle che protegge come una corazza e mette al riparo da sorprese e soprusi.
È ancora la propensione al lavoro fusa all’orgoglio del “laorar sul meo” che sfocia in tanti casi in quel capitalismo popolare che ha portato il Nordest a essere campione dell’economia nazionale ed europea. Ma nel libro emerge anche un’altra componente fondamentale, senza la quale le prime due forse non avrebbero portato da nessuna parte: la famiglia, il collante che ha consentito l’evoluzione in un secolo: da miserabili a padroni e padroncini.